Abbiamo avvicinato Mimmo Borrelli dopo il confronto tra il suo personale segno e quello di Eduardo, in una sorta di riflessione sul teatro partenopeo. “Avevo molta paura di fare questo reading” lo si è sentito confessare percorrendo la navata di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco”.
Di Mariangela Stanzione
Tra i flutti di un mondo globalizzato, fatto di transizioni distratte e confini sempre più sbavati, pare risposta vincente contro la sterile omologazione culturale di un Occidente alla deriva proprio il ribadire quegli stessi confini, affinché fruttuoso incontro fra diversità possa darsi. Ben venga allora l’isolamento di Efestoval – festival dei vulcani, dedito al teatro (eminentemente arte dell’incontro) e non solo, che, strenuo come la memoria identitaria flegrea di cui si fa carico, non resiste ma esiste, combattendo lo iato generazionale e la perdita della memoria senza mai raggomitolarsi in solipsismi paesani e che anzi, radicandosi in profondità nella sua terra, germoglia ed estende le sue fronde in orizzontale, tesi al confronto con similitudini più o meno lontane (si rimanda il lettore ai nessi tematici percorsi dalla rassegna sulle pagine Instagram e Facebook). Una causa importante, sulle cui orme si è stati sedotti in questa occasione poco fuori dal salernitano. “Una causa che, con grande fatica, secondo me stiamo vincendo”, ha detto l’ideatore e direttore artistico, Mimmo Borrelli (attore, regista, poeta, fra i più importanti autori teatrali italiani di ultima generazione): quella di radicare il senso del teatro nel dialogo fra la scena e la realtà delle persone, dei luoghi, della memoria. Sabato scorso si è potuto assistere al reading delle poesie di Eduardo, Il Gelo, dello stesso Borrelli. Sfida ardua. A prescindere dal risultato, il commento—forse ingenuo, forse indicativo—è spesso: “non è Eduardo”. Come si toccano i mostri sacri? In Eduardo, Borrelli ci mette Borrelli. “Avevo molta paura di fare questo reading” lo si sente confessare mentre percorre a fine spettacolo, provato ma cordiale, la navata di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco. A ben donde: non è immediato imprimere la dinamicità dell’azione a quanto nasce per la lettura, specie a testi non correlati. Questo tipo di questioni ci si pone, in attesa, mentre si ammira una glaciale penombra acquamarina giocare coi teschi alati dell’abside barocca e le candele irte verso le membra infuocate delle anime pezzentelle (nella pala d’altare di Massimo Stanzione), al cui culto seicentesco, soppresso dal Vaticano nel 1969, l’autore dedicò otto anni fa Opera Pezzentella, pièce site-specific. Una deviazione dai siti flegrei dal sapore di ritorno a casa. Dinanzi all’altare, su una bassa pedana lignea, una sedia e un tavolo scarni l’attendono, assieme a un bottiglia verde colma d’acqua ai loro piedi. La fronte già corrugata dell’attore emerge di colpo dalla sagrestia e attraversa i pochi metri fino alla postazione. Svolta la prima pagina, siede. Gomiti larghi, collo incassato fra le spalle. Scalzo, colori scuri, una larga casacca scollata. Pochi gravi ringhi introducono il canto in napoletano di un Calibano ansante, da La Tempesta tradotta da Eduardo nei suoi ultimi anni. Riscaldamento appena sufficiente, per lo spettatore, prima del susseguirsi, in allucinante diapositiva, dei più iconici passi eduardiani: “… ‘o cafè, prufesso’”, “… ‘o presepe”, “‘E figlie so’ figlie!”, “Ha da passa’ ‘a nuttata…” si affastellano come voci impetuose di un libro sfogliato dal vento, seguite come in una montagna russa emotiva da una toccante lirica di pugno dell’attore: un ritratto di Tuardo allo scrittoio, insonne, infreddolito e dolente per la mancanza di ispirazione nei momenti in cui il teatro diventa ‘a fatica, responsabilità—sofferenza condivisa di cui dalle prime file si sente tutto il peso, nei vulnerabili occhi che cercano conforto in anime in ascolto… Ecco, dunque, la drammaturgia, l’azione: a parlare sono le molteplici anime di Eduardo che trovano sfogo nell’atto della scrittura, variazioni sul tema del tentativo di conoscenza dell’umanità. Il maestro è ora fra noi. Ma ferino, verticalizzato da un medium dalla corporeità importante, che affila aggressiva coltelli, se li passa in faccia, e incagliatasi su un serrato “Gioacchino, Gioacchino…” si percuote reiteratamente cosce, petto e fronte, nella reminiscenza della tempesta di botte che Don Antonio Barracano ricevé da adolescente; che motiva l’addio alla felicità di “Si t’ ‘o sapesse dicere” in un viscerale mal d’amore affogato in una sbornia; e che insolente, nel contrattare con San Giuseppe e finanche Dio, poggia rozza i piedi sul tavolo e parla con la nasalità di Torre Annunziata, con deflagranti effetti comici inediti per Vincenzo De Pretore (potenzialità che nemmeno Eduardo, probabilmente, si sarebbe aspettato). Al più famoso poemetto del “muorto mariunciello” si accompagnano i meno noti Padre Cicogna e Baccalà, storie, rispettivamente, di un padre che, spogliatosi della veste sacerdotale, non riuscirà mai ad adempiere alla promessa al Signore di dedicargli un Quanno nascette Ninno con un coro d’eccezione (composto da suoi figli, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, innumerevoli bambini sempre morti prima del Natale); e di un attore di strada conosciuto da tutti per la buffonesca maschera che ha dovuto indossare per sopravvivere e che, arruolatosi e tornato dalla guerra, assaggia l’angoscia di venir dimenticato. Tutti inevitabili inciampi e dolori dell’esistenza umana, coagulati e gravanti in un commosso Ie vulesse truva’ pace… Il teatro dei padri ci insegnerà a capire la vita, a volgere lo sguardo indietro per capire dove siamo diretti: questo pare voglia dirci Borrelli con questo omaggio, nel congedarsi umile, la nuca pesante, la coppola bassa sugli occhi, che impercettibilmente annuisce alla voce del maestro a Taormina. “È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! Così si fa il teatro… e così ho fatto. Ma il cuore ha tremato sempre, tutte le sere. Anche stasera mi batte il cuore. E continuerà a battere, anche quando si sarà fermato”. Il cuore di Eduardo è tornato a battere, per questa sera. Ma, affinché continui, sta a noi nutrirlo, rimanendo ad ascoltare.