di Gemma Criscuoli
La natura maestosa e violata, l’importanza di un gesto, la fatica di vivere. Spaziano tra numerose tematiche i versi di Giuseppe Semeraro, che, accompagnato dalle musiche ironiche e calde di Leone Marco Bartolo sotto il segno di Principio Attivo Teatro, ha proposto “La manutenzione della solitudine” al Chiostro Ave Gratia Plena. Lo spettacolo ha segnato la quinta tappa di Mutaverso, il progetto a cura di Erre Teatro di Vincenzo Albano. Semeraro sa creare un’immediata empatia col pubblico, che ha la sensazione di accogliere le confidenze di un amico venuto da lontano, eppure capace di esprimere pensieri fin troppo familiari a chi lo ascolta. La profonda ammirazione per ciò che libera da menzogne e intralci (“Maestra è la vita senza promesse”), per un’idea di esistenza che chiede solo di esprimere la propria luce, s’intreccia all’amara consapevolezza di quel che soffoca e insterilisce, per cui il destino è “affanno inutile”, “domanda con troppe risposte”, “verme segreto”. Un poeta, d’altro canto, non teme di assecondare pienamente la propria percezione, che lo conduca alla sofferenza o a ritrovarsi nel fluire delle cose (“Se non ci fosse la gravità, le mie parole cadrebbero dalle pagine”). Chi scrive avverte, inoltre, la necessità di offrire coraggio e sostegno al lettore, quando si misura con la perdita e con l’ostilità (“Non prestare carne alla pena ”). Che ogni esistenza sia occasione irripetibile per donarsi a se stessi e agli altri è visione molto cara all’autore, che esorta, in uno dei suoi testi, a non cedere al sonno e a lasciarsi trasportare da una notte che sia festa gioiosa, momento di ebbra condivisione. Perfino il Salvatore preferirebbe mille volte essere semplicemente un uomo, invece di essere emblema di gloria spirituale, come afferma lui stesso in “Due parole in croce” (“Volevo meritarmi la vita, non il paradiso”), in cui la “pietà per le giarrettiere della Chiesa” è presa d’atto di quanto sia deleterio dimenticare o travisare la propria umanità. Affrontare i giorni che si susseguono, tuttavia, resta impresa ardua, come mostra “La ballata del poeta disoccupato”, tragicomica vicenda di chi, dedicandosi alla Musa, può tranquillamente aspettare secoli la meritata somma di disoccupazione. La vena caustica di Semeraro è particolarmente degna di interesse, come mostra la sua composizione dall’eloquente titolo “Natale di merda”, dove, tra “quintali di carne morta” e “santi invidiosi di pastori anarchici”, l’alienazione da festa comandata è restituita in tutta la sua capacità di stringere alla gola. E il pubblico, a cui attori e poeti dedicano tutto? Non vuole essere disturbato nel suo conformismo, nei suoi riti rassicuranti, visto che desidera “poesie al microonde” e “un teatro senza assassini”, mentre “di pubblico in questo Paese resta solo il culo degli artisti”. Eppure, non si può fare a meno di mettersi in gioco, anche quando tutto sembra perduto , come nel “Monologo dell’ amore e del parcheggio”, vana e continua ricerca di parole che sappiano finalmente mescolare le carte. Nessuno scrittore può proporre strategie risolutive per guardare in faccia, senza soccombere, quello che opprime, ma può ricordare l’essenziale: il rapporto con le proprie origini, con l’elemento naturale degradato a decorazione di appartamento, come in “Un ulivo a Milano”, che rimpiange “la giostra di lucertole sul tronco” dal sedicesimo piano di un attico, dove è stato collocato alla tenera età di centoventisette anni. Gli scenari della natura racchiudono in sé il miracolo di un’energia che, generosamente, si rinnova, ma l’uomo, appiattito sul proprio egoismo, preferisce distruggere. Rimane acerbo il rimpianto dei magnifici ulivi uccisi, quando “c’era un bosco di giganti/con la faccia storta/sorridevano al mare”.