di Olga Chieffi
Il centenario della scomparsa di Enrico Caruso deve avere quale obiettivo, attraverso il percorso del grande tenore napoletano, di porre in luce, Caruso come personaggio tra i più popolari del Novecento e tra i più sintomatici di un certo mondo e di una epoca ben delineata. Ripercorrendo le tappe fondamentali del fenomeno Caruso, ci accorgiamo che gli aspetti essenziali della sua vita si vanno ad intersecare con temi e problematiche fondamentali del nostro passato prossimo, di carattere tecnologico, sociologico, storico e di costume, quali l’invenzione delle incisioni e del grammofono, il cinema muto, gli incontri importanti con Puccini, Toscanini, con i reali d’Inghilterra e Roosevelt, il celebre terremoto di San Francisco, la prima guerra mondiale, l’affondamento del Titanic, i processi, le minacce mafiose, le passioni, i tradimenti, i dolorosi lutti e le malattie. Ma in prima battuta la competizione con le grandi promesse e le voci già affermate della lirica che dominavano le scene teatrali dell’epoca. Ma com’era la voce di Enrico Caruso? Come deve essere una grande voce? Non certo quella che infrange i cristalli o raggiunge con facilità note ultrasoniche; né quella che sfoggia fiati interminabili, le impossibili apnee di certi tenori dalla corona facile; né soprattutto quella reboante e tribunizia, spudorata e tronfia del suo volume. La “grande voce” è lo strumento morbido e flessibile, incisivo, solido e omogeneo in tutti i registri, costruito dallo studio assiduo e sorretto dall’intelligenza, dalla sensibilità dell’interprete; una voce in grado di comunicare qualcosa, e che possa essere ricordata per tutte quelle sensazioni che riesce a trasmettere in teatro. Ne abbiamo potuto seguire la bellezza timbrica indiscutibile, dal 1902, quando Caruso è ancora parzialmente in possesso delle stigmate del tenore “di grazia”, quale era stato considerato, a dispetto del timbro scuro, agli inizi di carriera. Una classificazione dovuta soprattutto alla morbidezza, alla fluidità del legato, all’uso frequente di mezze voci e smorzature, di cui sarà più avaro nel seguito della carriera, nonché all’emissione in falsettone, testimoniata per esempio dal si bemolle conclusivo di “Celeste Aida”, che nelle incisioni successive Caruso emetterà viceversa a voce piena. I dischi americani realizzati a partire dal 1904 riproducono, da parte loro, l’evoluzione e il progressivo rafforzamento tecnico della vocalità tenorile più sfarzosa, virile e sensuale che si sia mai udita nel corso del Novecento. Una voce dotata di un’ampiezza, un velluto, una smaltatura brunita e uno squillo tali da renderla straordinariamente fonogenica in rapporto alle tecniche di incisione dell’epoca. Uno strumento che oltretutto, nonostante gli studi irregolari, risulta sostenuto da una tecnica di emissione di alta scuola, documentata nei dischi Victor da un passaggio di registro divenuto ormai impeccabile, dalla perfezione del legato, dalla dosatura ineccepibile dei fiati, dalla nettezza degli attacchi. Non bisogna, poi, dimenticare il Caruso insuperato interprete di canzoni napoletane che, all’epoca alimentarono le struggenti nostalgie degli emigrati italiani in terra d’America, né l’esecutore timbricamente ammaliante, per quanto poco incline a un gusto miniaturistico, delle romanze da salotto. Il Ravello Festival, diretto da Alessio Vlad, che prenderà il via il I luglio, con la Deutsches Symphonie-Orchester Berlin diretta da Kent Nagano, come le altre alte istituzioni musicali della Campania e d’Italia, celebrerà Enrico Caruso e lo farà con due prestigiosi appuntamenti, in programma il 29 luglio e il I agosto, sul belvedere di Villa Rufolo, a getto sulla divina da lui tanto amata. La direzione artistica si è affidata a tre eredi contemporanei del grande tenore, Juan Diego Flòrez, Lawrence Brownlee e Michael Spyres. Juan Diego Flòrez si presenterà al pubblico del Festival, il 29 luglio in duo con il soprano Marina Monzò, sostenuto dall’Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli, diretta da Nicolas Nagele. Flòrez, tra i più amati interpreti del globo, forte di una fama sbocciata all’età di soli 23 anni, è il più grande tenore rossiniano del mondo, una voce timbrata in tutta la sua estensione che raggiunge con faciltà il Re sovracuto, e che, oggi, canta anche Verdi, Puccini, Bizet, Massenet, Bellini, Donizetti, quel nuovo repertorio che gli predisse Luciano Pavarotti. Il I agosto ribalta per Lawrence Brownlee e Michael Spyres, i quali saranno in concerto con la Filarmonica Salernitana “Giuseppe Verdi” di Salerno, diretta da Michael Balke. I due tenori sono reduci dall’incisione del progetto, “Amici & Rivali” per la Erato, in cui ridanno vita all’amichevole rivalità tra Nozzari e David, due fuoriclasse del belcanto i due cantanti americani, stilisticamente consapevoli, oltre che solidi tecnicamente che, naturalmente, lasciano presagire una complicità e una chimica tra le due voci. I due tenori saranno privilegiati interpreti, del grande repertorio rossiniano, composto per i teatri napoletani diretti dal Barbaja, che spazia dall’Otello alla Elisabetta Regina d’Inghilterra, fino a Ricciardo e Zoraide, al quale si aggiungeranno due preziose chicche, ovvero “Seul sur la terre” dal Don Sebastiano, di Donizetti e l’ouverture “Al conventello” composta da un Rossini, appena quattordicenne, per chiudere con il secondo inno d’Italia l’intramontabile “’O sole mio”.