Olga Chieffi
Attesa prima, questa sera, alle 20 all’Opera di Roma dove andrà a concludersi il trittico pucciniano con Suor Angelica, in binomio con Il prigioniero di Luigi Dallapiccola. “Ciò che lega questi due capolavori è la condizione di claustrofobica prigionia che attanaglia e annienta i protagonisti, cui si unisce la loro speranza delusa”. E’ l’affermazione del direttore Michele Mariotti, che sarà sul podio dell’orchestra, del coro dell’opera diretto da Ciro Visco e delle voci bianche affidate ad Alberto De Sanctis, per questo ultimo appuntamento del “Trittico ricomposto”, il progetto ideato con il Festival Puccini di Torre del Lago, che unisce il centenario della morte di Puccini e i 50 anni dalla scomparsa di Dallapiccola, in scena sino al 2 maggio al Teatro dell’Opera di Roma. In regia ci sarà Calixto Bieito, al debutto romano, mentre le scene saranno di Anna Kirsch, i costumi di Ingo Krügler, le luci di Michael Bauer. In Suor Angelica – prosegue Mariotti – è commovente vedere come Puccini, con delicate tinte color pastello, descriva un universo femminile composto da donne di differenti caratteri e temperamenti, che il voto preso non può e non deve nascondere. Diversa è l’atmosfera del Prigioniero, la cui indicazione iniziale del compositore, “stridente”, introduce subito in un clima di orrore, delirio e crudeltà”. Il dittico inaugurato da Suor Angelica di Giacomo Puccini, con , Corinne Winters nel ruolo del titolo, la quale si alternerà con Yolanda Auyane nelle repliche. La Zia Principessa, avrà la voce di Marie-Nicole Lemieux, la Badessa, Annunziata Vestri, la Suora Zelatrice, Irene Savignano, la Maestra delle Novizie, Carlotta Vichi, Suor Genovieffa, Laura Cherici, Suor Osmina e la novizia, Jessica Ricci Suor Dolcina, avrà la splendida voce di Ilaria Sicignano, che ha compiuto il primo step di studi nel conservatorio G.Martucci di Salerno, la Suora Infermiera, Maria Elena Pepi. A completare il cast le due cercatrici Marianna Mappa e Claudia Farneti e le due converse Sofia Barbashova e Caterina D’Angelo. Non occorrono commenti per spiegare con quanta esattezza Suor Angelica, datata 1918, corrisponda alla prassi moderna di alludere ad una realtà nefanda, mettendo sul tappeto, in sua vece, evasivi primitivismi e candori. In Suor Angelica si rivelano le esasperazioni modali che scivolano verso le scale per toni interi, già sperimentate in Butterfly, con l’orchestrazione lucida, o trasparente come una vetrata, con una qualità arcaica come la poteva intendere Stravinsky, che rappresenta l’esasperazione della suora. Puccini lega assai bene e in maniera coerente la qualità fonica alla situazione dei personaggi, sino al confluire del dramma nel miracolo sfolgorante, senza timore di mettere a nudo una condizione psichica non certo reale, ma estatica, ovvero tutto quello che può fare una povera madre in un claustrofobico convento. In Suor Angelica l’ esercizio stilistico e l’angolazione sperimentale muovono da una scelta e da una tinta senza precedenti nel melodramma, una sfida, degna di quelle raveliane, all’idea data di teatro musicale: un lavoro tutto al femminile, fra soprani (la protagonista e le sorelle più giovani), mezzosoprani (in genere le suore che incarnano l’autorità) e – lo scarto timbrico e vocale più netto – un contralto, la crudele Zia Principessa, cartone preparatorio di Turandot, diciotto personaggi, tutti importanti. Ulteriore presa di distanza dalla tradizione è il modo di sceneggiare la vicenda in sette episodi, pannelli o stazioni, come una via Crucis. A seguire, Il Prigioniero di Luigi Dallapiccola, con protagonista Mattia Olivieri. Accanto a lui, Ángeles Blancas nella parte della madre e John Daszak nei ruoli del Carceriere e del Grande Inquisitore, con un Nicola Straniero, artista pugliese che abbiamo avuto studente nel nostro conservatorio, ma diplomato quindi in “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma e Arturo Espinosa secondo inquisitore. È l’estate del 1939 quando Luigi Dallapiccola s’imbatte a Parigi nel racconto La torture par l’espérance, uno dei Contes cruels di Auguste de Villiers de l’Isle Adam: ne resta impressionato e, nel viaggio di ritorno, comincia a riflettere sul suggerimento ricevuto dalla moglie Laura di ricavarne un lavoro teatrale. Lo scoppio della guerra, poco dopo, sembra rendere reale l’atmosfera oppressiva della storia, in cui la speranza di fuga di un prigioniero è un altro strumento di tortura nelle mani del suo carceriere. Il libretto è pronto alla fine del 1943, e Dallapiccola inizia a lavorare alla musica nel 1944, quando avviene la liberazione di Firenze, e la nascita di sua figlia Anna Libera. «Erano gli anni» scrive Dallapiccola “in cui l’Europa, da tempo circondata da filo spinato, con ritmo ognora crescente si riduceva a un ammasso di rovine”. C’è un segno musicale che più di ogni altro caratterizza l’intera opera, e sono i tre accordi iniziali, che costituiscono la costellazione dodecafonica più importante: in essi si rinchiudono, nell’arco di tre sole battute, l’angoscioso e funereo destino del Prigioniero. Un motivo musicale che ha la capacità di esprimere lo stato d’animo complessivo (Gefühlswegweiser, per usare Richard Wagner), che ritorna in vari momenti chiave del lavoro. Il primo degli accordi sviluppa la serie dodecafonica denominata “serie della preghiera”, quindi, la“serie della speranza” e quella della “libertà”. Un’idea-guida, questa dei tre accordi, che racchiude semanticamente la simbologia ineluttabile della condanna: tre accordi, come le sillabe della parola “Fratello”, che assurge a motore della subdola e terribile tortura. il tema della prigionia come perdita della libertà, considerata il bene più sacro dell’uomo. Viene citato Dallapiccola, il quale ha esplorato gli abissi oscuri e insondabili della condizione di prigionia, attratto da una sorta di fascinazione quasi magica o stregonesca verso questo mondo. La libertà, quindi, viene rappresentata nella sua dimensione più cupa e reale, ovvero quella della prigionia, che diventa un luogo di ispirazione fantastica per il compositore. Le immagini della cella, della porta chiusa e delle sbarre alle finestre assumono un ruolo simbolico, trasformandosi in elementi di un mito. La curiosità si concentra sul Prigioniero e sull’antagonista, il Carceriere. Quest’ultimo, nel suo operare, priva gli altri della libertà, ma finisce per vivere egli stesso nella condizione di prigioniero del suo ufficio, condividendo così la sorte di coloro che detiene. Nel ciclo “Canti di prigionia”, si evidenzia un aspetto positivo del rapporto tra carcere e libertà, rappresentato dai martiri che sacrificano la loro libertà per affermare un ideale superiore. Nel “Prigioniero”, invece, si adotta una chiave di lettura più cupa, quella della psicologia sadica del tiranno e del carceriere, i quali, privando gli altri della libertà, partecipano inconsapevolmente alla creazione di un’aureola che, simbolicamente, santifica la figura del martire.





