Ci uccidiamo un po’ ogni giorno. Scoprendo che niente è privo di contaminazioni, di giochi che non nascondano tranelli, trappole per la ragione. Vorremmo accadesse qualcosa di straordinario, un evento, ma non abbiamo la forza di chiederlo, né sapremmo a chi. Così ci creiamo artificiosamente il nuovo, ma ne siamo già stanchi e spaventati il giorno dopo. Molti gli esempi di consenso sull’altalena: alla novità segue la stanchezza, la distrazione, poi un coniglio dal cappello, ma il piccolo animale è di cartapesta. Siamo tutti, sempre, profondamente insoddisfatti, non sappiamo usare bene la nostra intelligenza, viviamo al di sotto della coscienza, confusi nella percezione delle cose. La fine del secondo millennio è stata rimossa abbastanza per non turbare nessuno. Ma un’angoscia sottile, appena avvertibile, ci pervade: sappiamo che stiamo per cambiare vagone (o l’abbiamo già fatto) e non conosciamo il capotreno, l’azienda che sta organizzando il nuovo viaggio. Nel frattempo, continuiamo secondo le vecchie logiche, i vecchi rituali del sapere, la diffusa mediocrità della nostra memoria. Dalla politica ai problemi sociali, a quelli morali, stiamo ancora ad armeggiare con categorie dello spazio (provviste di facile metafora): destra e sinistra, alto e basso, sud e nord, sopra e sotto. Parliamo di uguaglianza, di parità dei diritti, poi scopriamo che l’unico diritto che quotidianamente ci ritroviamo è quello di metterci in fila in attesa dell’autobus o davanti allo sportello di un esattore. Avrebbe dovuto finire cento anni fa questo millennio per essere meno indolore. Il cinema e la psicoanalisi, l’elettronica e gli studi più recenti sulla materia (la carne di cui siamo fatti, noi e la pietra), la sempre minore differenza tra la nostra e le altre specie viventi: sappiamo troppo ormai (e ancora così poco) per sopportare di vivere all’interno delle trappole dell’aggressività, dei giochi della furbizia, delle parvenze ideologiche che appannano gli occhiali. A volte, più forte che mai, rispunta l’attesa del sacro. Una folla che crede di vedere, o chiede di vedere, partecipare a una dimensione al di là della soglia della percezione. Ora, negli anni in cui stiamo per coprire il cielo con un enorme schermo televisivo. Viviamo un’irrimediabile orfanità e basta una luce obliqua tra i rami a farci intravedere nostra madre che piange o sorride per noi. Siamo arrivarti al terzo millennio, con ancora le pietre, scheggiate, tra le mani.