E’ disponibile in libreria la nuova opera di Federico Sanguineti dedicata alle “parolacce” dell’Alighieri, per le edizioni Tempesta. Moni Ovadia sta provando in teatro il suo nuovo spettacolo sul Paradiso nella chiave di lettura del filologo torinese
Di Olga Chieffi
Il cilindro che indossa Federico Sanguineti è, sicuramente, uno di quelli magici che mise in fuga il traditore, arrampicatore sociale, aspirante borghesotto Rap, dalla bidonville in cui si riusciva a condividere anche l’ultimo raggio di sole, in “Totò il buono” di Cesare Zavattini. La Kippah che ricopre il capo di Moni Ovadia è quella di un ebreo agnostico che crede nella rivoluzione e cita il Talmud. I due hanno sposato la berretta bianca, aderente alla testa con punte coprenti gli orecchi, cui è sovrapposto un berretto con fascia al sommo della fronte e un ricasco a cappuccio sul dorso, da cui sporge il celebrato naso di Dante Alighieri. Ciò che unisce i tre è la parola libera e la libertà d’arte. In occasione dell’anno celebrativo del DCC anniversario della morte dell’Alighieri e del centenario della fondazione del Partito Comunista Italiano, il filologo Federico Sanguineti, ha pubblicato per le edizioni Tempesta, “Le parolacce di Dante Alighieri”, un agile volumetto, che non è certo il libro best-seller, “dejà vu”, ovvero scontato in partenza, come tanti in libreria che gli fanno compagnia sugli scaffali dedicati, tra “un tornar a riveder le stelle” e romanzi ambientati nell’Inferno. Sono 14 i capitoli, in scrittura chiara e comunicativa, in ossequio all’onestà intellettuale che contraddistingue l’autore, attraverso cui si snoda la storia e l’analisi della “parolaccia”, dalla Bibbia in poi, passando per il “Manifesto del partito comunista” di Karl Marx e Friedrich Engels, ovvero della sua anticipazione nella Comedia di un’Italia serva e borghese, la storia di questo termine “parolaccia” contemplato nel “De iciarchia” di Leon Battista Alberti, appendice della Familia, in cui ci si raccomanda di non amare la propria moglie, che porta ad allargare la riflessione sulla condizione della Donna nella società rinascimentale, sfociante nella comparazione tra il Poeta antiborghese, Dante, che considera la parola della donna amata la chiave della Verità (prima grande virtù dell’uomo, secondo alcuni filologi, termine derivante dalla radice iranica “ver” che significa fiducia realtà) e l’Alberti, il quale nella ricca Firenze borghese medicea, affermava che la donna dovesse essere muta, poiché avrebbe potuto, tra l’altro, arrivare a provocare il marito, pronunciando, appunto, parolacce. E si continua, ben oltre la relegazione e al silenzio della donna in casa: “Nelle regole della vita matrimoniale” di frate Cherubino da Spoleto, e siamo nel 1477, si invita a ricorrere alla violenza fisica sulla donna, a scopo educativo, con battitura e flagellamento, supportato anche da dottori e speziali che consigliavano come curare le ferite inferte dalle frustate, con lenimento o incisioni, se mai fossero degenerate in setticemia. Prima, però, di agire con le vergate era preferibile organizzare un discorso che incutesse terrore e rispetto, costellato di parole forti, aspre, ma senza profferir le famose parolacce. Beatrice in Paradiso, invece, parla tanto, interviene, sorride, insegna e guida Dante verso la Verità ovvero, la riconquista della fiducia in se stesso e negli altri. In questi giorni Moni Ovadia sta provando al Teatro Comunale di Ferrara, un rècital in vista della tanto agognata riapertura dei teatri: “Paradiso con Dante e con Beatrice”, un viaggio che il nostro amico ebreo percorre ispirandosi proprio alla chiave di lettura di Federico Sanguineti, assieme a Sara Alzetta che dà voce alla guida femminile del sommo poeta e alla violoncellista Giovanna Famulari. Federico Sanguineti continua, con le “sue” donne letterate, messe a tacere dagli storici della letteratura di “regime”, da Cristina da Pizzano a Isotta Nogarola, da Cassandra Fedele a Laura Cereta e ancora Modesta Pozzo, Margherita Sarrocchi, Isabella Andreini, Lucrezia Marinella, Faustina Maratti Zappi, Luisa Bergalli Gozzi. La prima letterata, in grado di vivere dei suoi proventi e della sua scrittura è Christine de Pizan, ovvero Cristina da Pizzano, la quale accende la prima querelle letteraria della storia, sul Roman de la Rose, un poema allegorico in versi novenari, iniziato da Guillaume de Lorris nel 1237 e completato quarant’anni dopo da Jean de Meung. La critica di Christine è radicale: per lei sono proprio le forme del romanzo cortese a essere sbagliate, perché si basano su una misoginia radicata nella mentalità degli uomini, che non perde occasione di ripetersi, nella letteratura come nella vita di tutti i giorni, correggendo parolacce come coilles (i genitali maschili) e lodando il nostro Dante per la Comedia, quale efficace descrizione dell’ultraterreno, cento volte meglio composta del Roman de la Rose, ma bacchettandolo sulla condanna di Semiramide, nel suo “Livre de la Cité des Dames”, un libro in cui si afferma che le donne devono impegnarsi a cambiare il mondo perché è nella loro natura. Tre i capitoli finali dedicati agli scempi perpetrati nei secoli dai copisti, attraverso lo studio certosino dei vari codici, unitamente a quegli degli interpreti, degli storici, che hanno cercato di “adattare” Dante al proprio tempo, al proprio uso e costume. La morale, in postfazione redatta in prosa poetica, condanna le interpretazioni e i versi scelti ad hoc per generazioni di studenti, da Farinata, a Francesca, sino ad Ulisse, che le “parolacce”, quindi, non sono solo bordello, tigna, puttana, merda, ma ben altro. L’invito è quello di andar a riaprire la Divina Commedia ponendosi vergini dinanzi al testo dantesco, liberando, così, finalmente, il poeta, e noi con lui, dall’Inferno stereotipato borghese, sulle tracce di Heine, facendolo ascendere al Paradiso, dove si è tutti eguali, dove “buon giorno” vuol dire veramente “buon giorno”.