Rino Mele
Aldo Masullo ha scritto in questi ultimi anni poche ma significative poesie, legate ad avvenimenti atroci per i quali non riteneva utile ricorrere a un saggio, un articolo, una riflessione di quelle in cui lui eccelleva, tra filosofia e descrizione degli eventi. Ha sentito il bisogno non di fotografare il reale, ma dirne l’anima, il soffio vitale, raggiungere la filigrana del senso, annullando ogni compiacimento, il vizio pervicace del narciso che scambia il suo volto col riflesso di un falsificante specchio. Avrebbe quasi voluto scriverle, le sue poesie, sui grossi riquadri di un alfabetiere, perché tutti potessero leggerle, i bambini che nel mare delle confuse parole degli adulti nuotano a stento, e rischiano d’esserne sommersi, di arenarsi nella più bruta afonia. Voleva parlare agli adulti ma come fossero bambini. Così lui, filosofo abituato a consumarsi gli occhi sui problemi ardui suggeriti da Fichte ed Hegel, e in continuo confronto con loro, aveva alla fine compreso che di fronte all’oltraggio verso l’infanzia – e nel caso dei bambini migranti è doppia, e si moltiplica ancora, nell’indifferenza verso la brutalità dell’assassinio – bisogna ricercare la più semplice delle riposte al dolore che si riversa su tutti. Sfidando superciliati critici, sempre in agguato dalla loro mediocrità, sfidò i luoghi comuni e si fece poeta, o almeno tentò di avvicinarsi al vertiginoso vento della poesia. La poesia civile è poco frequentata, appartiene a Dante, a Tommaso Campanella, a Parini, a Foscolo, perché non è seduttiva, musicale come la grande tradizione petrarchesca che ha finito col redigere il canone della nostra scrittura in versi. Da Pascoli da cui inizia il Novecento i due elementi si sono confusi e solo in alcuni autori risultano separabili, lo stesso Pascoli scrive “Il gelsomino notturno”, 1903, impalpabile, ma l’anno successivo lo straordinariamente forte poemetto proprio sull’angoscia dell’emigrante, “Italy”, 1904. Quattrocentocinquanta versi battuti come su un’incudine. Torniamo ad Aldo Masullo. Una prima composizione su questo tema è “Il sonno di Aylan” pubblicata sulla prima pagina del “Mattino” il 5 settembre 2015 (ripubblicata ieri su “La Città”). Solo due giorni dopo la morte del piccolo Aylan, sulla spiaggia turca di Bodrum. Il padre fuggito coi figli dalla Siria, da Kobane, città curda assediata dall’Isis, non era riuscito a salvarlo. Ed ecco, la risposta di Aldo Masullo che depone le ben conosciute armi della retorica, del sillogismo, della specularità delle figure, delle acrobatiche fughe della ragione, e scrive dei versi semplici, chiari. Concreti, come un improvviso silenzio o il pianto. Questi versi, che avevano nella cronaca più insidiosa e oscena la loro radice, non hanno bisogno d’interpretazioni: sono figure affettive, il seno, la rena della spiaggia, il mare: “Come sul guanciale / di carne della madre appena nati / furono posti”. E qualche verso dopo, “Non il latte neppur solo sognato / bagna le tenere labbra di Aylan. / Di sabbia l’acqua amara le sigilla”. In tutto sedici versi, divisi in due brevi strofe, non hanno rime né particolari accorgimenti se non una musicalità bassa, tenuta a freno dal ritmo di severi endecasillabi, non limati, incastrati a formare quattro quadrati per catturare la morte. Pubblicherà nel 2019, su Repubblica, “Pagella di scolaro in fondo al mare”: inizia rivolgendosi direttamente al ragazzino morto: “la portavi cucita sul petto” e, poco dopo, sovrappone in una furiosa condensazione tra l’odissea della di quella giovane esistenza e il naufragio finale: “perso / nell’immensa incertezza del migrare / corpicino in balìa d’infide forze”. Aldo Masullo non attribuiva nessun particolare valore letterario ai suoi versi: la sua alta sensibilità critica, l’abitudine a scrutare nella poesia estrema le affinità con la filosofia glielo impediva. Filosofia e poesia sono entrambe legate alla sorgiva del puro pensiero, il pensiero pensato. Ma una – la filosofia – costretta a modelli analitici e straziatamente discorsivi in un perenne scavo di cui devi seguire per intero il faticoso necessario processo, l’altra – la poesia – che in una fulminante forma ellittica, e luminosamente accecante, ti mostra l’esito di quel dolorosissimo cercare. Ci scrivevamo spesso. Un giorno d’inverno del 2016 gli mandai il testo pubblicato di una mia poesia, “Paterno mare madre”. Mi rispose subito una lettera in cui analizzava il mio lavoro: Terminava così: “Come Platone ribadiva, ‘l’occhio non può vedere sé’. La poesia, la tua poesia, porta finalmente alla luce dei nostri occhi questa altrimenti invisibile vita nuova. La poesia, tu ben lo sai, della vita non è freddo riflesso speculare, ma gioia e dolori nuovi che si aggiungono alla gioia e al dolore della vita immediatamente vissuta, e aprono profondità che questa non ha. Peraltro, in ciò che tu scrivi al canto dell’anima fanno corona l’invenzione grafica e la sua raffinatissima “teatralità”. Così emozioni e pensieri divengono straordinarie visioni, nella cui armonia la loro naturale violenza si placa, sopraffatta dalla bellezza. Grazie dunque, grazie di tutto. Amico grande e amato. Aldo”.