di Salvatore Memoli
Soltanto ai giudici ed ai confessori sono riservati privilegi che li mettono nella condizione di esercitare ministeri che solo a Dio sono riservati. Giudicare e perdonare! Se riflettiamo ci viene da tremare. Il Vangelo di San Luca ci ricorda una parabola rivolta da Gesù ai suoi seguaci. Ci sottopone la vicenda di una povera vedova che aspettava di vedersi riconosciuti i suoi diritti da un giudice del tempo. L’evangelista Luca é particolarmente attento alla vicenda umana, alle premure di Gesù che accompagnano le persone nel cammino della Fede. In più ci ricorda tutte le attenzioni del Maestro per le donne deboli e sofferenti. Donne semplici ma coraggiose, proprio come la vedova del passo evangelico che insistentemente chiede ad un giudice disattento, infastidito, lontano dall’esercizio corretto della giurisdizione che deve mettere ordine nella vita civile dell’epoca.É molto noto il brano del giudice e della vedova che sottolinea la pervicacia della donna nel chiedere al giudice di riconoscerle giustizia.
> Il brano dice: « In una città viveva un giudice che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città viveva anche una vedova che andava da lui e gli chiedeva: Fammi giustizia contro il mio avversario ».
> Ci sono almeno tre elementi fondamentali nel brano che ci fanno riflettere, ieri come oggi: il giudice, la vedova, la denegata giustizia. Ogni elemento richiederebbe un’esegesi completa, preferisco soffermarmi sul ruolo del giudice. Chi di noi non si é trovato nella condizione di vivere una condizione d’ingiustizia subita? Chi di noi non ha atteso giustizia da un giudice? L’esperienza di molti é quella che ottenere giustizia nel nostro sistema giudiziario non é facile né semplice, pur stando dalla parte del giusto. Quante difficoltà circondano la vicenda giudiziaria di tante persone: indifferenza e routine, difficoltà di essere ascoltato e creduto, relazioni complicate con chi sta seduto sul banco di chi giudica.
> Si ha l’impressione di un rapporto difficile da sostenere, é come combattere contro i mulini a vento. Si perde la fiducia e la speranza di vedere riconosciute le proprie ragioni. Dall’altra parte ci può essere un giudice che non ascolta, che s’infastidisce, che fa sentire la sua distanza ed interpreta il suo ruolo come prerogativa, privilegio, diritto esclusivo, libertà di viverlo come prestigio.
> Nella ripartizione dei ruoli, accusatore ed accusato, accusato e giustizia sono diventati dati di fatto scollegati, eco di un’organizzazione sociale che divide, che non mette in relazione ed incoraggia il sospetto.
> Il dato del giudice che non fa il suo dovere, che viene sollecitato a fare uso di una terzietà per meglio giudicare, alla lunga crea situazioni di fatto patologiche, accentuate dalla convinzione che non é l’ufficio a giudicare ma l’uomo che prende il sopravvento psicologico su altri uomini.
> Il giudice ha bisogno di ripensarsi come funzione, ogni giorno, di richiamarsi alla necessità di vincere l’egoismo, di sentirsi al di sopra e migliore di altri uomini.
> Il giudice della Parabola viveva il suo obbligo di rendere giustizia come fastidio e si proteggeva con indifferenza.
> La vedova ( ogni uomo in attesa di essere giudicato o di giustizia) vive una sconfitta sociale finché un giudice non si scioglie dal suo torpore e giudica la persona o il caso come un dovere sociale di riformare i guasti degli errori.
> Il giudice acquista con gli anni sapienza ed esperienza ma risente dei limiti di attività ripetitive che stancano.
> La giustizia non può essere esercitata se l’uomo o la donna giudice non avverte l’ansia della giurisdizione, il pericolo dell’ assuefazione e dell’indifferenza nell’espletare la propria attività.
> Non è soltanto un correttivo del sistema che può contribuire a rivitalizzare una funzione della società civile. Occorre stimolare la sensibilità di chi giudica, in un contesto di riequilibri di valori, di ruoli, di funzioni e di obiettivi.
> Non si possono riverberare prerogative che alla lunga diventano privilegi e danni alla comunità democratica.
> È necessario sottoporsi alle verifiche ed agli aggiornamenti per garantire che quello che si fa non risponde ad esigenze personali ( come per il giudice della Parabola che non aveva riguardo per alcuno) ma è servizio alle Istituzioni ed alla Comunità, tensione alla verità e non alla comodità, della quale fanno parte, anche in una dimensione laica, con parità sostanziale di diritti e doveri, giudici, giudicati e chi attende il riconoscimento dei suoi diritti.
> Il giudice non è Dio ma a lui sono riservate prerogative che sono solo di Dio che gli permettono di giudicare un altro uomo/donna. Se il giudice ha nel suo cuore, nella sua vita, nella sua cultura la presenza di Dio, facilmente riesce ad avvertire la tensione ed il valore del suo lavoro, stranamente prerogativa riservata a Dio stesso.
> Sta a lui esercitare bene tale delega perché di tale privilegio risponde a Dio e deve rispondere al Popolo, nel nome del quale emette la sua sentenza.
> Il pensiero del legame con Dio dell’attività del giudice é esaltante e terribile al tempo stesso. Stimolante ed invitante a miglioramenti continui che allineano professionalità e responsabilità.
> In questa prospettiva c’é una lettura viva della dimensione del giudice e del giudicato.