di Olga Chieffi
“Trasparente luce/d’ottobre, al cui tepor nulla matura/perché già tutto maturò: chiarezza/che della terra fa cosa di cielo”. E’ questo un verso di Ada Negri dedicato al sole d’ottobre, che ieri ha tentato di riscaldare il gelo entro quanti hanno affollato il Duomo di Salerno che ha accolto il feretro di Fulvio Maffia. In prima fila il sindaco della nostra città, Vincenzo Napoli, con la sua consigliera Antonia Willburger, Enzo Maraio Segretario nazionale del partito Socialista, Pasquale Sorrentino, in rappresentanza della Provincia di Salerno e il Sindaco di San Giovanni a Piro, Ferdinando Palazzo, con il labaro del suo comune listato a lutto. Corpo docente al completo con Maestri già a riposo o appartenenti ad altri conservatori che non hanno inteso far mancare il saluto, l’omaggio alle spoglie mortali del loro direttore, del loro amico, del pianista, del didatta, di colui il quale segnala svolte e insegna prospettive, indica una via e la illumina, col proprio esempio, col proprio “fare”, col proprio porsi sempre in gioco, lavora indefessamente con severità, nella costruzione del sapere, senza mai aggobbire sotto blocchi di marmo, verso sempre nuovi traguardi, conquistati in prima persona, il sorriso di Fulvio che poteva assolverti e redimere. Non possiamo dir lo stesso, invece degli studenti, in numero minimo, ma con una significativa presenza di ex-allievi.
La celebrazione ha visto al fianco di Don Felice Moliterno, che nella sua omelia ha sottolineato come le antiche pietre del duomo raccontino l’essenza del mistero divino e dell’eternità e come si debba guardare in alto per incontrare Fulvio, Padre Paolo Saturno, storico della musica e Don Antonio Toriello, docente di oboe del nostro conservatorio. Non poteva non essere una messa cantata quella di un musicista. Il coro del Martucci con all’organo Carmine Rosolia ha eseguito brani della liturgia, a cominciare da Eccomi, l’Alleuja, il Santo e l’Agnus Dei di Marco Frisina, per quindi passare all’ “Ave verum corpus” di Wolfgang Amadeus Mozart, scritto nell’anno della sua morte, uno dei momenti più alti del compositore austriaco, con la sua struggente e intima semplicità, sino al Panis Angelicus di César Franck, elevato da una Valeria Feola che non ha saputo trattenere le lagrime e, per l’uscita, l’Ave Maria di Giulio Caccini, uno dei più grandi falsi della musica poiché scritta da un russo negli anni Settanta, Vladimir Fedorovic Vavilov. L’orazione funebre è stata tenuta da un commosso Giancarlo Iacomini, già vicedirettore del Martucci: “Fulvio era un fiume in piena che il più delle volte non riuscivamo a trattenere – ha detto Iacomini, oggi presidente dell’Abc – e ora non ci restano che poche gocce. Lavoratore instancabile aveva una parola e una soluzione per tutto e tutti. Ricordiamo le sue continue ascese al Golgota (il Martucci è in altura) di mattina, di sera e di notte, per portare la croce che oggi ci appartiene e siamo qui per continuare a camminare sulle sue tracce ed eternarne l’opera”. In queste giornate di ostinata armonia con sole e mare da cartolina, era naturale invadere il belvedere o porre il leggio vicino alla finestra e suonare inebriati dal panorama. Fulvio, dopo aver ricevuto l’applauso della comunità raccolta a pregare e testimoniare la propria vicinanza, è andato a dare l’ultimo sguardo al suo conservatorio, l’ultima ascesa, in istituto, dove certamente lo ritroveremo tra quei corridoi e tra le note. Ai familiari, alla inconsolabile Miriam, agli amici, ai maestri, agli allievi che continueranno ad onorarne il segno indelebile che ha lasciato nel loro percorso di vita, non resta che “redigere” ancora, insieme, il piccolo libro dell’anima. Cos’è cambiato, infatti, con la morte? Cosa cambia – quando l’attesa resta sospesa di fronte al compimento? L’essere andato di là, nell’invisibile, dell’artista e dell’amico ci pone assiduamente la domanda circa il di là e il di qua della soglia paurosa che tutti ci rende vili, ma anche ardenti di curiosità. La disparizione emana verso di noi il fiore di un’amara, ma nuova primavera, di un’era da esplorare, in cui ritagliare una nuova terra d’amicizia e colloquio. Pure ci sollecita l’urgenza d’intrecciare, senza sosta, visibile e invisibile, per costruirci un veicolo, non so, magico di contatto che può essere la musica, un’immagine, l’assoluto del mare. Tutto cambia e tutto resta per noi tutti se la morte rompe i sigilli e la parte di vita ch’era stata trattenuta fluisce e torna a noi, per questo rimaniamo disorientati di fronte alle morti e come presi da rimorso. Pur, tuttavia, l’amicizia se resiste oltre la morte, se si apre a quelle notti di veglia, potrà accaderle di divenire ancora più alta, spirante e ispirante.