di Michelangelo Russo
E’ morto all’età di 86 anni, Matteo Avallone, maestro indiscusso dell’arte di acconciatura maschile degli anni ’60 e ’70; quando il decoro dell’aspetto quotidiano era ancora espressione dello stile italiano a tutto tondo, dai capelli alla punta delle scarpe. La sua capigliatura, folta e chiara degli anni belli, era la vera insegna del suo esercizio di barberia, mitico, all’inizio di via Diaz, dopo il larghetto Caduti di Guerra. Fu il primo a Salerno a intuire, nel 1964, la rivoluzione estetica che stavano portando i Beatles nel mondo della moda maschile. Il taglio alla Ringo Starr o alla John Lennon lo raggiungevano i diciassettenni, in quegli anni, solo dopo aver fatto la fila e dietro raccomandazione. Perché di norma Matteo serviva le schiere di avvocati del vicino Tribunale e la clientela più attempata di quella borghesia inappuntabile, nelle grisaglie della convenienza e della consuetudine, che trovava nel taglio inappuntabile di Matteo il tocco sobrio di eleganza, come il fazzoletto nel taschino della giacca. E tuttavia il maestro aveva un temperamento personale che era il contrario dell’aplomb classico mantenuto mentre operava. Negli anni ’60 fu uno scatenato animatore di serate in costiera e a Positano, scrutando le mode e le eccentricità dei tanti stranieri famosi e no incontrati all’Africana. Divenne un divulgatore e un narratore di quello che c’era di nuovo alle porte di una città chiusa nella tradizione provinciale di riprovazione delle sconvenienze libertarie quando il 68 era alle porte, e pochi a Salerno se ne accorgevano. Salernitano doc, nel nome e nel cognome, Matteo conosceva i segreti antichi del costume cittadino e dell’arte culinaria più pregiata. Buongustaio declamatore di sapori irresistibili mentre, con maestria rara, ricostruiva a colpi di pettine capigliature inselvatichite dalla sciatteria dei proprietari, passava con indifferenza dal racconto di tavole imbandite a festa al tormento degli ultimi quindici minuti della partita della Salernitana, aspettando, con le spalle voltate al campo di gioco, che il vantaggio di un punto sull’avversario reggesse fino al fischio ultimo dell’arbitro. Incuteva rispetto, con l’età. Nel famoso ristorante “da Sasà”, rimasto nel cuore di tanti anche fuori da Salerno, Matteo riceveva da Sasà sempre un posto di riguardo. Una volta mi accorsi che quelle premure che il ristoratore riservava ai clienti più affezionati, tra cui io, si moltiplicavano al tavolo di Matteo. E Sasà, che ben meritava l’appellativo di don Salvatore, si rivolgeva a Matteo chiamandolo “don Matteo”, mentre questi gli dava un “tu” affettuoso. Nella piccola antologia dei salernitani fuori dell’ordinario che ci hanno lasciato, che qualcuno dovrebbe iniziare a scrivere, Matteo Avallone ha conquistato il suo posto.