di Alberto Cuomo
Ad una visione superficiale, quanto accade a Salerno nel campo delle trasformazioni urbane appare disordinato e senza regole. L’occhio critico si rivolge, senza soffermarsi sulle più gravi situazioni in periferia, principalmente alle annunciate modificazioni delle aree centrali dove esse toccano situazioni consolidate che peggiorano le condizioni dei luoghi e degli abitanti già da tempo insediati. È il caso del nuovo edificio previsto accanto al Grand Hotel Salerno nell’area dell’ex cementificio e di quello che dovrà costruirsi in via Vinciprova, contro i quali sembra si stiano creando comitati di cittadini al fine di evitare il nuovo scempio. Si tratta di un film già visto che sembra ripetere il copione riguardante la costruzione del cosiddetto crescent, l’ecomostro che purtroppo oggi fa sfoggio di sé tappando il Centro Storico. Con una differenza: nel caso del crescent l’opposizione alla sua costruzione fu operata da Italia Nostra, sotto la spinta della presidente Raffaella Di Leo cui si aggregarono gruppi estemporanei di giovani creativi, i “chiancarelle boys”, mentre nel caso delle costruzioni tra l’area dell’ex cementificio e via Vinciprova la contestazione sembra parta dal basso, dai cittadini residenti. Una differenza di non poco conto dal momento Italia Nostra, a proposito del crescent, appariva agire principalmente in nome della cultura e del rispetto della Legge Galasso in materia paesaggistica e ambientale laddove, diversamente, l’opposizione degli abitanti dell’area di via Vinciprova alle nuove costruzioni interviene in difesa della propria qualità della vita. La qualità della vita, già, che non è mai stata presa in considerazione dagli urbanisti e spesso ridotta a mera questione quantitativa ovvero al rapporto tra residenze e servizi di cui si fissava, attraverso la legge, una misura standard, 18-24 mq ad abitante. Persino i magistrati non si resero conto, nel caso del crescent, che il riferirsi alle leggi, da parte di Italia Nostra, era un modo non solo per difendere astratti valori culturali, quanto anche la qualità della vita dei cittadini. I presenti al processo ricorderanno come il presidente Siano, poi passato in Cassazione, si adombrasse a sentir definire il crescent come “ecomostro”, ritenendo forse che per la giustizia non era in discussione l’estetica. La stessa linea difensiva del megaedificio si fondava anche sul fatto che essendo la contestazione in chiave urbanistica mossa da un abitante alle spalle del palazzo semilunare, essa fosse inaccettabile per interesse di parte. A differenza di quanto è accaduto a Salerno, a Milano, dove pure gli interessi sono maggiori che non nei lotti liberi di una piccola città del sud come Salerno, la magistratura è intervenuta con inchieste e condanne, anche di natura contabile (e si, la qualità della vita è a sua volta un valore economico) rinvenendo negli interventi, coperti magari da firme di archistar, la volontà di bypassare le norme nazionali in materia urbanistica, senza commuoversi di fronte agli alberi piantati sugli edifici invece che sul terreno. Per sanare i molti escamotages milanesi rivolti a non tener conto della norma nazionale, è stato varato persino un decreto legislativo bipartizan ribattezzato “salva Milano”, contro cui si sono espressi ben 140 intellettuali che si sono appellati al senato, affinchè il decreto non sia approvato, ravvisando in esso un modo per innescare in tutto il paese processi di densificazione tali da determinare una scarsa qualità della vita. A Salerno, l’ulteriore crescita della città appare esito di una scellerata deregulation mentre in realtà essa è determinata da regole esistenti e però perverse. È noto che il Piano urbanistico redatto a firma Bohigas poneva il limite alla espansione urbana onde “costruire nel costruito” con progetti di riqualificazione della città esistente. Un modo di agire fatto proprio già 20 anni prima, dalla cosiddetta Manovra Urbanistica che si fondava appunto su progetti di recupero, mediante l’introduzione dei servizi, dei vari quartieri della città. Purtroppo il Piano di Bohigas non metteva in luce che la costruzione nel costruito dovesse riguardare i servizi, ed anzi fu previsto che Salerno dovesse crescere sino a 180mila abitanti, abbisognando quindi di altre costruzioni residenziali. Lungo tale indirizzo di Bohigas, il cui Piano prevedeva però progetti attuativi che contemplassero la presenza dei servizi, si muove l’attuale ufficio di Piano il quale, accettando i progetti attuativi dei privati e mantenendo la previsione della “grande Salerno” ha definito nel 2021 una variante-adeguamento del Piano ipotizzando un incremento della popolazione di ben 20mila abitanti, pur registrando l’impossibilità di raggiungere i 180mila abitanti, stante il decremento demografico che ha condotto la nostra città dai 138mila abitanti del 2001 ai 126.715 del 2023 (fonte Istat) con una perdita costante di residenti a partire dal 2015. Per non dire che al fine di mantenere il rapporto tra residenze e servizi per questi ultimi sono state previste aree incongrue, qual è ad esempio quella dei binari ferroviari in prossimità della Cittadella Giudiziaria, già di per sé stessa del tutto antifunzionale nei suoi spazi interni e nell’equilibrio della città. Il Piano di Bohigas era già consunto allorchè fu approvato nel 2006 e malgrado oggi si tenti di adeguarlo al Piano Provinciale di più ampio respiro, contestato dall’allora assessore Di Maio, pure architetto di belle speranze, non regge alle necessità odierne dei cittadini, così come tutta la valorosa cultura urbanistica italiana degli anni Ottanta che lo ispirò, fondata sulle quantità e non sulla qualità della vita. Qualità che esige ora attenzione all’ambiente, alla fruizione di spazi aperti ricchi di verde, sì che, come aveva deliberato Giordano nel 1986, non si costruisca più, con buona pace dei costruttori e di De Luca che, a suo dire, si sacrifica per noi. Per carità non si sacrifichi più.