di Michelangelo Russo
Nell’articolo di ieri 9 agosto Roberto Scarpinato, fino a pochi mesi fa Procuratore Generale di Palermo, ha tranciato un giudizio ferocissimo sulla sentenza assolutoria della Corte d’Assise d’Appello di Palermo nel processo sulla trattativa Stato-Mafia per far cessare le stragi del 1993. Scarpinato, ormai in pensione da diversi mesi, è ormai un cittadino privato che può parlare come gli aggrada. E’ libero di esprimere giudizi su sentenze che, con la toga indosso, non potrebbero mai formulare. Ma è pur sempre, ancora, sotto certi aspetti, un magistrato. Per noi giudici, anche in pensione, vale la regola, comunemente accettata, simile a quella dei sacerdoti: “semel in ecclesia, semper in ecclesia”. Gli piaccia o meno, lo sconfessi o meno, Scarpinato sa che sta parlando ancora da magistrato. E la sua accusa ai colleghi della Corte d’Assise di Appello di essere degli ignavi, privi del tutto (si legge tra le righe delle critiche tonanti) di un minimo di coscienza critica (e di coraggio conseguente) di fronte all’evidenza del quadro probatorio che portò alla condanna in primo grado dei carabinieri deviati, è una accusa e una sentenza definitiva, insieme, più forte e penetrante di una sentenza definitiva di Cassazione. Scarpinato ha segnato una via che da tempo, sotterraneamente, aspettano di percorrere quei giudici settantenni che sono andati in pensione, e che nel loro percorso giudiziario hanno vissuto con passione il loro ruolo; rifiutando così la strisciante tendenza della magistratura (anche per sua colpa) a rannicchiarsi in un puro esercizio burocratico della sua funzione, in un patto tacito di non belligeranza con il mondo politico. Io politica garantisco a te Magistratura una indipendenza formale. Tu Magistratura non ti sognare nemmeno di replicare i toni inquisitori alla Tangentopoli e alla Falcone e Borsellino. E’ la verità triste della restaurazione strisciante, ci dice esplicitamente Scarpinato. La via indicata da Scarpinato è una sorta di appello alla crociata per gli spiriti liberi di quei giudici andati in pensione che ora possono parlare a voce alta, con l’eco dei meriti che si sono conquistati nella vita professionale. Quanti ce ne sono? Sono tanti! La loro saggezza, il loro grido unito alle altre voci critiche, possono chiamare a un maggiore senso critico e a una più forte presa di coscienza, tutti quei colleghi che sono in piena attività, e che subiscono il progressivo abbandono di fiducia della gente nella Giustizia. E’ tempo di normalizzazione. Quindi s’avanza un tempo acritico e asettico di rassegnazione alle assurdità e alle incongruenze delle pronunzie giudiziarie. La riforma Cartabia sull’istituzione dei pareri degli avvocati nei consigli giudiziari sarà, verosimilmente, un inventivo alla omologazione dei giudici verso il profilo basso delle questioni bagattellari. Difficile che possa spuntare, in questa situazione, un gruppo di magistrati inquirenti che abbia il coraggio di fiutare e di inseguire le prove di un ipotetico processo nello stile dell’inchiesta sulla trattativa Stato – Mafia. Soprattutto nelle Corti d’Appello meno grandi, dove più forte può essere l’influenza di grandi nomi dell’avvocatura che difendono importanti eccellenti locali, i giudici con vedute autonome originali ed efficienti potrebbero essere il bersaglio di critiche immotivate, ma influenti nei pareri dei consigli giudiziari. Con stroncature di carriera per i giudici non omologati. In questo quadro, bene venga la voce libera di quei colleghi alla Scarpinato, per spezzare il conformismo anche dei mezzi di informazione sulle versioni tranquillizzanti di sentenze paludate, ma afflitte da quel lieve puzzo maleodorante che emana dallo sforzo fisico di rendere plausibili invereconde versioni della verità.
Michelangelo Russo