Questa sera, in Santa Apollonia alle ore 20, ancora una serata dedicata all’Impressionismo di Fauré, Debussy, Chausson, Poulenc, con le voci e i fiati del nostro Conservatorio
Di OLGA CHIEFFI
Oggi, nella Chiesa di Santa Apollonia alle ore 20, quarto appuntamento in cartellone della IV edizione del Festival di Musica da Camera, promosso dal Conservatorio Statale di Musica “G.Martucci” di Salerno e ideato dalle docenti del dipartimento di musica da camera Anna Bellagamba e Francesca Taviani. Ancora una serata, questa, dedicata all’Impressionismo francese con le più talentuose voci del nostro conservatorio. La musica vocale da camera fu una costante nella carriera di Gabriel Fauré che già negli anni di studio aveva intrapreso la composizione di un ciclo di Mélodies. A gruppi preferibilmente di Deux e Trois, una volta Quatre, una volta Cinq Mélodies, Fauré omaggiò con esse gentildonne amiche, i cui nomi costituiscono un ampio catalogo della buona società parigina dell’epoca. Tra le dedicatarie delle mélodies figura più volte il nome di Pauline Viardot della quale il compositore sperò per qualche tempo di divenire genero. Fauré sembra privilegiare toni sommessi e delicati e dimensioni intime e contenute. Una maggiore complessità contraddistingue invece i lavori della maturità, dove una più meditata successione, nelle liriche che compongono i diversi cicli, evidenzia l’esigenza dello sviluppo di una più vasta concezione musicale. Ad inaugurare il concerto, il tenore Daniele Lettieri con Ilaria Capaldo al pianoforte, interprete di Apres un reve, a seguire, Salvatore Minopoli con Chanson d’Amour e Ilaria Sicignano con Fleur jetèe. Passaggio al Claude Debussy di Les Cloches con Daniele Lettieri una delle Proses Lyriques, si passerà, quindi ad Ernest Chaussons, con la Nuit, evocata da Salvatore Minopoli e Daniele Lettieri e Le Colibrì con Ilaria Sicignano. La seconda parte della serata prevede l’esecuzione, da parte di Laura Cozzolino, pianoforte, Raffaele Palazzo, flauto, Federico Franco, oboe, Fabrizio Fornataro, clarinetto, Giorgio Cardiello, corno e Gaetano Varriale, fagotto, del Sestetto di Francis Poulenc. «Ma musique est mon portrait», diceva Francis Poulenc, e ascoltandone la musica a cinquataquattro anni dalla scomparsa, non possiamo che concordare con questa sua affermazione. È difficile pensare a un altro caso in cui la musica sia così legata allo stile, al carattere e al vissuto del suo compositore. Orgogliosamente elegante, dotato di sensibilità e capacità empatiche, Poulenc ha una vita intensa, all’insegna di ricerca estetica e profondità intellettuale e affettiva, ed è animato sia da slanci di freschezza e leggerezza, sia da profonde crisi personali e psicologiche, con severe riflessioni religiose; è attante eclettico nei fermenti culturali del suo tempo, e intrattiene solidi rapporti con le più incisive personalità del panorama artistico. Ancora una volta, il compositore si accosta a i prediletti strumenti a fiato, che gli permettono con le loro multiformi sonorità e risorse espressive, ora sbarazzine e burlesche, ora caustiche o insinuanti, aggressive o stridenti, di conferire via via caratteri cangianti alla sua musica, netti e definiti, volutamente, e provocatoriamente, antitetici, rispetto alle “nebbie” impressionistiche. Il Sestetto datato 1939 richiama la struttura e lo spirito del Trio; nei tre movimenti si snodano temi che non si sviluppano, ma si giustappongono, articolandosi in un dialogo virtuosistico tra le peculiarità timbriche e tecniche dei vari strumenti. Poulenc stesso afferma che il Sestetto nasce con l’intento di rendere omaggio agli strumenti a fiato, per l’amore che per questi nutre da quando ha iniziato a comporre musica.