Nel 2008, nella consueta rubrica Per non dimenticare la collega Vera Arabino ci parlò di Clemente Tafuri che oggi riproponiamo.
di Vera Arabino
«Mi faceva dipingere per ore. Poi, a fine giornata, veniva a vedere il mio lavoro. Lo osservava attentamente, in silenzio, e si limitava a dire “va bene” o “va male”, senza spiegarmi il perchè. Stava a me arrivare a capire gli errori». Il padre e l’artista Clemente Tafuri sono un tutt’uno nei ricordi del figlio Lucio. Del resto anche lui, che oggi ha 67 anni ed è un pittore affermato ed apprezzato, è nato praticamente con i pennelli in mano. «Diversi anni fa sono rientrato in possesso di quella che è forse la mia prima opera – sorride – Si tratta di un quadretto che realizzai ad appena 4 anni, quando vivevamo a Cava de’ Tirreni. Me ne fece omaggio il pittore ed amico Guido Mancini, raccontandomi di averlo acquistato allora da me per celia, per poche lire, e di averlo sempre conservato». Un talento genetico affinato dall’insegnamento paterno: «Pur essendo molto affettuoso, papà era estremamente severo ed esigente – racconta – anzitutto con se stesso, e di conseguenza anche con noi figli ed in particolare con me che sono stato l’unico a seguire le sue orme». Una dura gavetta dunque, per il giovanissimo Lucio, fatta di silenzi eloquenti e di sguardi che dicevano tutto: «Oggi basta un niente, senza vero studio alle spalle, e tutti espongono, ecco perchè pittori veri tra i giovani non ce ne sono. Invece papà per primo non ha mai smesso di studiare pittura, persino quando era ormai famoso ed ha trasmesso anche a me questo perfezionismo e questo rigore, soprattutto nelle fasi della mia formazione – spiega – Di sicuro era un uomo ricco di sensibilità e questo si traduceva, nella pittura, in una sorta di innamoramento artistico che aveva per tutti i suoi modelli mentre, negli affetti, si riverberava in una spiccata emotività che spesso si sforzava di non dare a vedere». Ma Lucio era bravo a decodificare ed apprendere: «Da bambino, per iniziare seriamente ad apprendere l’arte della pittura, papà mi ha fatto dipingere tonnellate di mele perchè diceva che erano il soggetto perfetto per un principiante. Ma non mi ha detto che andavano bene fintanto che non sono riuscito a dipingere il peso della mela, che all’inizio mi sembrava cosa impossibile». Eppure in un caso a Lucio proprio non riuscì di capire che cosa non andasse bene in un quadro: «Avevo all’incirca 17 anni ed avevo realizzato un San Francesco con le mani intrecciate in preghiera. Mi sembrava perfetto, ma per scrupolo non l’avevo ancora consegnato al cliente che l’aveva visto ed acquistato – racconta – Naturalmente volevo sottoporlo al giudizio di mio padre che, dopo averlo osservato a lungo in silenzio, mi disse che non andava bene senza, come al solito, aggiungere altro». Di qui l’inizio dell’arrovellamento senza soluzione: «Non capivo proprio il perchè e mi incaponii a tal punto che, quando mio padre mi disse che non bisognava aver paura anche di arrivare a rompere un proprio quadro, squarciai la tela con le forbici». Non era a tanto però che avrebbe voluto spingerlo il severo genitore: «La sua era solo una provocazione, infatti alla fine mi spiegò che quello che non andava bene era un’inezia – sorride Lucio al ricordo – Si trattava dell’eccessiva accentuazione dell’angolo tra il naso ed il mento, che avrei potuto correggere tranquillamente, però è stato meglio così. La lezione mi è servita ed il suo insegnamento continua ad essere una stella polare per me». Dal padre Lucio Tafuri ha ereditato senz’altro la capacità non comune di raccontare la realtà, consegnando alla storia eventi anche drammatici della vita e del sentire collettivo. Se infatti di Clemente Tafuri resta impresso il valore universale di capolavori come “Salvo D’Acquisto”, “Lo Zaptiè Libico”, “La Battaglia di Santa Lucia di Cava dè Tirreni”, “L’Orfanello del Frejus”, che ricostruiscono sulla tela l’essenza del suo tempo (dalla tragedia della guerra alle catastrofi dell’epoca) con una drammaticità ed una potenza che lo avvicinano a grandi del passato come Velasquez e Rembrandt, il figlio Lucio è oggi definito superbo “cantore dell’Arma” per opere come il commovente ritratto di Daniele Ghione, che rende omaggio al giovane maresciallo dei Carabinieri perito nella strage di Nassiriya. Lui mette le mani avanti: «Se davvero c’è qualcosa che mi accomuna a mio padre, oltre al rigore dello studio – precisa – è il convincimento che l’arte si nutre del vero ma soprattutto di significato ed emozione». Sembra di ravvisare lo stesso pathos che faceva scrivere a Clemente Tafuri: «Per me la pittura è una esplosione di sentimenti, che nasce dall’anima e non dal cervello. Dipingere per me è una necessità, sono nato a Salerno e dipingo istintivamente come per istinto la gente del sud canta per esprimere la sua gioia e il suo dolore». E in chiusura anche il pensiero del figlio va all’amata città natia: «Ci manco da molti anni e, anche se la mia vita di fatto è qui a Genova da tempo, un po’ mi sento sempre in esilio, lontano dal calore e dal colore della mia città – dice – Ma di Salerno preferisco serbare i tanti ricordi bellissimi che custodisco, anche perchè mi fa troppa malinconia non poter ritrovare scorci, luoghi e soprattutto persone della mia infanzia ed amici che ormai purtroppo non ci sono più».