I giorni della chiusura forzata in casa, anzi, le notti. Interminabili, popolate da incubi, con lo stomaco eroso dall’ansia e l’anima roteante in spazi costretti, determinati, dilatabili. E’ il tempo della polmonite cinese in attacco morboso del mondo, dei mille morti al giorno con la gente sui balconi a cantare “Bella ciao”, dei giornalisti che ciclostilano un «Andrà tutto bene» in favore di un’élite senza nerbo eppur nervosa, stanca, sazia, flaccida, effeminata ma senza fascino. I giorni, e soprattutto le notti, in cui rimbomba nella testa che a morire sono anziani, non persone, riflesso condizionato che dice tutto su quel tempo, su ciò che lo introdusse e su ciò che oggi è.
Saccheggiando un po’ Camillo Langone e un po’ Michel Houellebecq, verrebbe da dire che pure Andrea Manzi abbia pensato per il suo “Insonnia” (Castelvecchi) che «se non riesco ad articolare la mia sofferenza in una struttura ben definita sono fottuto». L’insonnia è democratica, livellatrice, mima la morte, taglieggia tutte le esistenze, chi l’ha provata sa che è un assaggio dell’inferno e Manzi, salernitano della Valle dell’Irno partorito dall’area dell’ex dominio dei Sanseverino, giornalista, poeta, scrittore, autore teatrale ma soprattutto uomo, ha preso le notti al balzo affrontandole a muso e penna duri, forse proprio per farne una «struttura ben definita». La sua è binaria, si direbbe oggi: un po’ prosa e un po’ poesia, una plumbea via crucis semi-sperimentale che riesci a perdonare solo se dentro vi leggi profonda, profondissima umanità o se ti chiami Giovanni Lindo Ferretti.
Si chiama Andrea Manzi, dunque, e di umanità libera da infezioni umanitariste abbonda nel libro che, come egli stesso dice ogni volta che realizza un’opera, «non avrei mai voluto scrivere». Invece è un bene che l’abbia fatto, novanta pagine sature di echi claustrofobici, umide di lacrime soppresse sul nascere, chissà se trattenute, astrazioni metafisiche, ritmi spesso pulp, un indistinto brusio di dettagli che rubano il primo piano, ansia, e tutto ciò che frana intorno durante le notti insonni di chi nella vita abbia letto almeno un libro, come un certo Aquinate ammoniva secoli fa. Ci sono, tra molti altri, Baudelaire e Bufalino, Poe e Balestrini, Cioran e Pudovkin in queste pagine insonni di Manzi, che Castelvecchi, contravvenendo alla sua traiettoria abituale, ha utilizzato per inaugurare una propria collana poetica. Poi c’è molto di più di memorie e influenze, di assorbimenti e letture, Andrea Manzi calpesta passi non d’altri e convince. Convince nel ricordo del padre, strugge nell’immagine di lui morto in ospedale «libero da tubi, fili e senza barba, una statua levigata pronta per la fiera degli sguardi», un IV comandamento tecnicamente onorato in prosa, convince quando dice che «le stagioni non le sento, le vedo», quando riconosce di aver «vissuto senza ammetterlo», sintesi dell’esistenza di chi lotta contro la furia dei demoni notturni, ma pure di quelli diurni. La morte che si «annuncia con i colpi di tosse e l’aria che manca, le sue carovane di corpi malcurati, gonfi di farmaci inutili», il segno e la pompa dei nostri ultimi mille e rotti giorni pur sempre imparagonabili a quelli delle tragedie cessate decenni addietro, sembra per Manzi il pretesto per parlar d’altro, che, gira e rigira, è sempre quello per ciascuno: la ricerca della verità, a volte esplicita («la verità chiedo da un palmo di vita al palmo di mano» mentre «un cane alle pendici abbaia nell’idioma dei lupi») altre meno, in minuscolo però, come lo stesso autore precisa in altra sede spiegando private ragioni stilistiche. Ragioni che, sebbene soddisfatte in ogni pagina, non oscurano il percorso intimo di un uomo che, brancolando nel buio di notti infinite segnate da un’attesa quasi ontologica più che spazio-temporale, imbraccia l’arma della parola per riconnettersi con la sola cosa che resta al termine di tutti i viaggi: generazione su generazione, a ritroso e in avanti, il senso, il sale e il significato della vita, un “non-finito” michelangiolesco che vorrebbe trarre dal buio ripetitivo di notti che sembrano e, forse sono, eterne, la materia delle nostre ossessioni, ben sapendo che l’insonnia fa «dismettere al padreterno (anche, ndr) i chiari di luna capresi». Certo è un mondo, il nostro, dove poeti scrittori giornalisti ed intellettuali, si auto-assolvono in una «rancorosa sequela di rivendicazioni», canterebbe Lindo Ferretti: il bello di questo libro di Andrea Manzi è che non trovi traccia di ciò, come neppure trovi gnagnere e lamenti petulanti di incompresi Dante e Manzoni della porta accanto, sovrabbondanti quant’altri mai in questo tempo di solitudine social. Il suo linguaggio, a tratti ermetico come l’erudita post fazione del compianto Franco Forte, esplode però di metriche, ritmi e parole che, da soli, basterebbero ad annullare ogni tentennamento critico: Manzi invoca «presenze incarnate e sanguigne» nella notte infinita del cristiano che meriterebbe di emergere sopravanzando l’intellettuale vero e autentico che ne definisce l’identità, circondato, come tutti noi, da banalità spesso anti umane inneggianti progresso e diritti. Memorabile il racconto della ricerca semi onirica tra ruderi di montagna, casali e antri primitivi, di una donna, Leda, ora scimmiesca nelle fattezze, ora conturbante sirena. La psicoanalisi (chi scrive è fermo a ciò che ne disse Kraus, forse Flaiano, di certo Mordechai Richler) non serve a decifrare il senso di un’accennata tensione erotica contenuta nel passo, basta conoscere gli uomini: un po’ come con il Pasolini migliore (Manzi, peraltro, starebbe completando un lavoro teatrale proprio sul gigante friulano) di “Saluto e augurio” sulla tomba di un giovane fascista, ma ribaltato, quando PPP dice che in periferia «…non basta Cristo, serve la Chiesa…». A Manzi non basta il giorno, serve anche la notte. E che notte.