Stasera, alle ore 21, l’omaggio al grande tenore di Un’Estate da Re, a Caserta. In scena Daniel Oren, Vittorio Grigolo, Caterina Vertova e l’Orchestra Filarmonica Salernitana, per dar vita allo spettacolo firmato da Riccardo Canessa.
Di Olga Chieffi
Il 5 dicembre 1906 Lina Cavalieri baciò con passione il tenore Enrico Caruso di fronte a una platea sbalordita, che non s’aspettava uno slancio di tale intensità da parte della cantante lirica. Da allora, “la donna più bella del mondo”, come tutti già la chiamavano, diventò anche “the kissing primadonna”, proprio in virtù di quel “coup de théâtre” con cui, sul palco del Metropolitan Opera House di New York, aveva reso scabrosamente indimenticabile la messa in scena della “Fedora” di Umberto Giordano. Stasera, alle ore 21, i reali della reggia di Caserta, oltre al direttore artistico Antonio Marzullo, saranno proprio Lina Cavalieri ed Enrico Caruso, un rapporto speciale, schizzato in “Caro Enrico….” uno spettacolo che porta la firma di Riccardo Canessa e di Daniel Oren, il quale sarà alla guida dell’orchestra Filarmonica Salernitana, con ospite il tenore Vittorio Grigolo. “Lo spettacolo – ci ha rivelato Riccardo Canessa – nasce dall’epistolario tra Lina Cavalieri ed Enrico Caruso. Alcune lettere sono autentiche, altre ricostruite, ed ho creato, sulla base delle ricerche racchiuse nel volume “Ridi Pagliaccio. Vita, morte e miracoli di Enrico Caruso” di Francesco Canessa, una particolare drammatizzazione, che può avere diverse versioni. Questa che andrà in scena ad Un’Estate da Re, è sicuramente quella più stringata ma, più intensa, pensata come “Il prologo” dei Pagliacci, poiché farà effettivamente da prologo al concerto di Vittorio Grigolo. La voce narrante sarà quella di Caterina Vertova, un’attrice eccellente, quella dei ruoli “ingrati”, la quale avrà il compito di svelare i risvolti della vita del tenorissimo, fatti di fragilità, di paura, come quella dei giornalisti, capaci di divulgare notizie false, della morte, in particolare quella di morire in palcoscenico, per un male che lui definiva la “carusite”, che c’era, ma gli permetteva di cantare, e che non riusciva a spiegarsi. Uno spettacolo che farà conoscere un Caruso “umano, troppo umano”. “Sono molto onorato di dirigere questo concerto – annuncia il nostro Maestro Daniel Oren – alla Reggia di Caserta, 120 anni dopo la prima delle due stagioni che, nel Teatro di Salerno ebbero a protagonista colui che diventerà il tenore più celebre di tutti i tempi. Al tempo di Caruso il Verdi si chiamava soltanto Teatro Municipale di Salerno e nel 1896 era affidato all’impresario Giuseppe Grassi, che dirigeva anche il giornale locale “La Frusta”. Caruso, che aveva appena 23 anni, e aveva debuttato in quel teatro agli inizi dell’anno in una sporadica recita di Lucia di Lammermoor, in una compagnia “di giro”, guidata dall’impresario Matteo Amendola, fu scritturato dal Grassi come tenore principale e interpretò, dal settembre al dicembre, i Puritani, La Traviata, La Favorita, Pagliacci, Cavalleria Rusticana, Carmen oltre alla dimenticata opera “A San Francisco”, del compositore Carlo Sebastiani. L’anno successivo, La Gioconda, Manon Lescaut oltre alle “riprese” di Traviata e Favorita, che la stagione precedente avevano riscosso il maggior successo e a un concerto di musica sacra in Cattedrale. Opere diverse, per vocalità diverse, furono per Enrico una “gavetta” provvidenziale, anche per la presenza dell’esperto maestro Vincenzo Lombardi, che diresse tutte le opere e fu prodigo di consigli per il giovane tenore. A Salerno fu più volte ascoltato e avvicinato da Nicola Daspuro, una singolare figura di giornalista- impresario, che rappresentava nelle città del Sud la Sonzogno, la Casa Musicale concorrente della più antica Ricordi. Il suo titolare, Eduardo Sonzogno aveva preso a Milano la gestione del secondo teatro cittadino dopo La Scala, il Lirico e raccolto intorno a sé i compositori della Giovane Scuola. Cercava un tenore per la parte di Loris nella Fedora di Umberto Giordano, che sarebbe andata in scena per la prima volta nel 1898. Daspuro gli suggerì con tanto calore Caruso, che Sonzogno lo scritturò a scatola chiusa, senza alcuna audizione preventiva. Fu ripagato della fiducia, perché il tenore napoletano riscosse un successo memorabile. Fu l’impennata definitiva verso la celebrità internazionale. Una celebrità fortissima a suo tempo: si pensi che nel 1909, agli albori dell’industria discografica e ad appena alla sua terza stagione al Metropolitan di New York, il disco della romanza “Ridi Pagliaccio” da lui inciso per la Victor vendette un milione di copie. Ma per tutto il secolo ed oltre è rimasto vivo il suo ruolo di caposcuola del canto moderno. Un autodidatta che stravolse il modo di cantare l‘opera, prigioniera di una tendenza chiamata “neo-belcantismo “in cui l’esercizio vocale era considerato predominante sulla parola drammatica. Caruso ebbe il coraggio di capovolgere questo rapporto: nell’opera è la drammaturgia che guida la musica sino a farne la componente dominante. Questo è il canto che ancora si ascolta ai nostri tempi, il modello Caruso non è cambiato. La sua rivoluzione estetica gli consentì di cantare – e incidere nei dischi che più si diffondevano nel mondo intero – anche la musica popolare come se fosse una romanza d’opera. Operazione che gli riuscì particolarmente con la canzone napoletana, che ancora oggi, non c’è tenore che si rispetti, che non la canti alla sua maniera”.