di Olga Chieffi
Vanitas dell’aspetto fisico, vanitas quale caducità delle cose, questa la chiave di lettura di Bella Figura, uno degli ultimi testi firmati da Yasmina Reza, che è stato messo in scena in questo week-end al Teatro Verdi di Salerno da Anna Foglietta e David Sebasti, Paolo Calabresi, e Lucia Mascino, con la partecipazione di Simona Marchini, nei panni di Yvonne. Un disguido tra due amanti in una macchina parcheggiata davanti a un ristorante: Boris (David Sebasti) confessa ad Andrea (Anna Foglietta), che il ristorante in cui intende
portarla gli è stato consigliato dalla moglie. Bella Figura esplora la notte che segue a quell’errore fatale, che svela i legami segreti con una seconda coppia, Eric (Paolo Calabresi) e Françoise (Lucia Mascino) le reazioni improvvise, i comportamenti irrazionali che si creano senza che ce ne rendiamo conto. In mezzo, Yvonne, una convincente Simona Marchini, la festeggiata “nonna”, già aggredita dalle tare senili, che dovrebbero essere attenuate, tamponate attraverso un taccuino di pelle di struzzo su cui appunta tutto. Non ab
biamo certo vista rappresentata una grande storia, ma una sintesi in quattro quadri di un tempo presente che contiene uno spazio drammatico, ovvero quell’incerta e ondeggiante trama di vite che s’incrociano, che è il segno riconoscibile della scrittura della Reza. Yasmina Reza è una acuta osservatrice del teatro umano, e ci sono diversi momenti di questo dramma in cui le maschere di una borghesia che vorrebbe godersi la vita, ma non può’, cadono. Il dramma è basato sulla vanitas, quella fisica per la quale si immola tutto
anche il buon gusto, racchiuso nell’abitino succinto di Andrea e la vanità che ricorda la Vergänglichkeit heideggeriana, della caducità delle cose, del tempo che trascorre inesorabilmente unitamente all’assurdità del quotidiano. I personaggi di “Bella Figura” mancano di coraggio, poiché sono intrappolati dalle loro apparenze, e questo è accentuato da alcuni segnali nel testo che lasciano intravvedere il mondo dietro le cose. Il set è un palco a due piani, con un’enorme parete scorrevole, dietro cui il mondo vivo s’intuisce: le zanzare attaccano i piedi dei personaggi, facendoli gonfiare in modo che non possano più adattarsi a scarpe costose, le rane gracidano, emettendo il suono per il loro rituale di accoppiamento. Il mondo in cui le due coppie e Yvonne stanno trascorrendo la serata è un mondo in decadenza, senza speranza, poiché i protagonisti della storia non rischiano, non hanno il coraggio di rompere semplicemente la maschera che indossano, si servono del sotterfugio per coprire i propri errori, tra un salottino, un pergolato, un parcheggio e una toilette. I personaggi di questa commedia non possono uscire dai loro schemi, non possono fare ciò che desiderano veramente. Sono in effetti sposati all’idea borghese di fare bella figura, ma non sono abbastanza consci e fermi nella loro grande finzione di farlo almeno con gioia, recitando fino in fondo, la parte che si sono assegnati. Roberto Andò non riesce a pieno nel rendere e scoprire il lato comico e grottesco delle situazioni, per quindi mescolarlo all’andamento drammatico dell’esistenza, cosa che ritroviamo nelle opere per il quale lo conosciamo e lo abbiamo applaudito, in film quali “Viva la libertà” e il recente “Una storia senza nome”. Regia debole che unita alla prova incolore di Lucia Mascino e David Sebasti, non ha comunicato per intero il materiale drammaturgico, crudele e cinico, su cui si basa la pièce.