Antonio Zinna, lo «scudo» sul petto - Le Cronache
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Antonio Zinna, lo «scudo» sul petto

Antonio Zinna, lo «scudo» sul petto

di Matteo Gallo 

Quando mi accoglie nel suo appartamento, al piano alto di un complesso residenziale della parte orientale della città, ha appena terminato una rilegatura di fortuna per tenere insieme i ritagli di giornale con sopra i resoconti del Giro d’Italia datato millenovecentottantatrè che proprio lui, da assessore allo Sport del Comune, riportò nel perimetro salernitano dopo quindici anni di assenza. Quei pezzi di carta sanno di storia mai ingiallita e sono ripiegati sul tavolo di legno scuro di una cucina riscaldata dal calore domestico ma anche dal sole che filtra dalle ampie finestre sulla verticale esterna della stanza. Hanno in calce nome e cognome di Enzo Casciello, prestigiosa firma del giornalismo italiano figlio di questa terra. Li sfoglia come pagine di un almanacco da collezione e con la solida fierezza del trofeo conquistato con il sudore della fronte: «Ancora ricordo quel momento. Fu motivo di orgoglio personale e un vanto per l’intero territorio» spiega Antonio Zinna ancora oggi, ancora adesso che di anni ne ha ottantadue ben allineati sulla timeline di una esistenza in bilico tra due grandi passioni. Lo sport, in particolare il calcio e la Salernitana: «Da ragazzo ho giocato nelle giovanili granata. Ero un promettente stopper. Mi ammalai e non se ne fece più nulla. Addio carriera. Sono stato un po’ sfortunato». E la politica, quella antecedente la Seconda Repubblica ma successiva alla seconda guerra mondiale che «ha fatto bene al nostro Paese», vissuta con la vocazione alle relazioni umane e una predisposizione talentuosa all’organizzazione. Approfondite, entrambe, in sincrono ma anche da separate sotto lo stesso tetto fatto uomo, con la pratica militante tra le file della Democrazia cristiana dopo l’incontro «decisivo» con l’avvocato Michele Scozia, già parlamentare e sindaco di Salerno, autorevole figura di riferimento dello scudocrociato. 

Dottore Zinna, un incontro che ha sicuramente cambiato la sua vita. 

«Ho frequentato l’istituto tecnico Genovesi di Salerno. Già allora, alle scuole superiori, dove non ero certamente uno studente modello, avevo mostrato una certa inclinazione a fare politica. Mi piaceva stare tra la gente, ascoltare cosa avessero da dire e, nel caso, valutarle pure. Non mi ero però mai spinto al di là dell’ascolto e della condivisione di idee, del confronto e, magari, di qualche suggerimento. Col passare degli anni ebbi la fortuna di conoscere l’avvocato Michele Scozia per il tramite di suo fratello Antonio, mio amico, direttore sanitario dell’ospedale di San Leonardo. Michele Scozia era una figura importantissima e di riferimento della Democrazia cristiana, di elevata statura politica, intellettuale e morale. Mi avvicinai a lui e da quel momento gli sono stato legato politicamente e anche come amico. Alle amministrative di Salerno del 1970, nelle more di quel forte legame di amicizia con i fratelli Scozia, ma ancora senza essere in possesso della tessera della Dc, ho vissuto la mia prima campagna elettorale. Diedi una mano, facendo il massimo nelle mie possibilità per il risultato del partito. Fu una esperienza entusiasmante». 

Perché proprio la Democrazia cristiana? 

«Perché era un vero partito popolare. Un partito per la gente. Ed io, che ero e resto, un uomo del popolo che vive tra la gente, ho visto nella Democrazia cristiana la dimensione naturale del mio agire politico». 

Quando la prima “discesa in campo”? 

«Nel 1975 la mia prima candidatura al Consiglio comunale di Salerno. In verità furono  gli altri a chiedermi di candidarmi. Io non volevo. Preferivo stare dietro le quinte come organizzatore e lavorare nel partito. Era una mia inclinazione naturale. Alla fine, comunque, accettai con convinzione la sfida elet

Fu premiata quella sua scelta?

«Presi millesettecento voti. Abbastanza ma non sufficienti a essere eletto nell’assise di Palazzo di Città. In quel momento, però, compresi una cosa importantissima…»

Cosa?

«Se avessi dovuto lavorare per il partito, nello specifico per la forza politica a cui mi sentivo legato e in cui credevo, allora lo avrei dovuto fare da protagonista sul campo di battaglia e non solo “assistendo” alle partite. Così feci. Cominciai a lavorare nel partito senza lesinare energie occupandomi, tra le tante cose, anche del tesseramento. Un impegno di militanza vero, appassionato. Proprio in virtù di quel tipo di lavoro, toccai con mano le problematiche della città di Salerno. Parlavo con i cittadini, stavo tra la gente. Vivevo la città e la sua comunità. Questo mi assicurò un grande arricchimento personale sul piano umano e politico. Ero in possesso di un prezioso patrimonio di relazioni e di istanze che provenivano dal territorio, dai quartieri, dalle famiglie, dai cittadini».

Per chi fa politica questo ‘patrimonio’ è anche una una responsabilità.

«Assolutamente sì. Alle elezioni del 1980 mi candidai scrivendo da solo il programma per la campagna elettorale. Avevo le idee chiarissime. Sapevo di cosa avesse bisogno la città di Salerno ed ero determinato a far valere le istanze dei cittadini con i quali mi ero confrontato in tutto quel periodo. Non esistevano alternative: per me era questa la strada maestra».

La conoscenza della “materia” si rivelò fattore decisivo?

«Presi più di tremila voti e fui eletto a Palazzo di Città. In lista con la Democrazia cristiana c’erano tanti giovani come me. Il primo degli eletti del partito, e dell’intero consiglio comunale, fu l’arbitro Pietro D’Elia. Allora la Dc esprimeva, con la sua pattuglia di consiglieri, la maggioranza relativa dell’assise municipale. Anche Aniello Salzano fu eletto in quella competizione amministrativa. A Palazzo di Città c’erano Carmelo Conte e Paolo del Mese. Il livello politico era alto. L’onorevole Lettieri, allora voce interna al partito sempre critica, disse che la Dc si era salvata proprio grazie al contributro di tre ragazzi: il sottoscritto, D’Elia e Salzano».

Che ricordo ha di quella esperienza amministrativa?

«Mi volevano assegnare la delega all’Urbanistica. Risposi picche perché ritenevo che quella delega andasse assegnata a qualcuno con un profilo differente dal mio. Il primo cittadino, Ennio D’Aniello, mi attribuì allora la responsabilità dell’assessorato al Commercio. Un assessorato di peso per la città di Salerno. E io, che ho sempre cercato i guai in politica, riuscii a trovarli anche quella volta».

Chi cerca trova: lei cosa trovò?

«Appena nominato assessore, convocai due funzionari del settore per comunicare loro l’intenzione di tenere aperti i negozi il sabato pomeriggio, a quel tempo chiusi. Da semplice cittadino, prima ancora che da politico, la consideravo una scelta sbagliata e di poco buon senso commerciale. Per ragioni di lavoro, infatti, avevo la possibilità di dedicarmi in piena libertà agli acquisti solo il sabato pomeriggio. Non potendolo fare nella mia città, a Salerno, come tanti altri salernitani che vivevano la mia stessa condizione, andavo in particolare a Cava de’ Tirreni. La chiusura dei negozi a Salerno penalizzava l’utenza e anche le casse delle attività. I due funzionari comunali mi dissero immediatamente di desistere da quella idea perché, proprio su quella questione specifica, si era “bruciato” l’assessore regionale al ramo perché i commercianti non volevano».

Come mi pare di capire, non fosse altro per evitare di venire meno a una questione di principio e genetica, marciò spedito verso i guai.

«Non mi tirai assolutamente indietro. Il presidente dell’allora assocazione di categoria dei commercianti, Renato Cavaliere, mi sosteneva. Erberto Manzo, invece, si staccò e andò su posizioni contrarie insieme ad una rappresentanza di negozianti che non vedevano assolutamente di buon occhio quella soluzione. Si scatenò la fine del mondo. Decisi allora di fare un incontro con la categoria».

Un incontro di fuoco…

«Innanzitutto presi atto delle loro rimostranze, delle loro osservazioni. Ma feci anche un’altra cosa».

Cioè?

«Gli dissi di procurarsi un elenco telefonico e di utilizzarlo per scegliere a caso dieci nominativi. A quel punto rilanciai: vediamo se trovate una persona di Salerno che è contraria all’apertura dei negozi il sabato pomeriggio! Le prime nove persone risposero tutte in maniera favorevole all’apertura delle attività. La decima telefonata fu la più bella. Ancora me la ricordo. Dall’altra parte del telefono c’era una signora. Rispose con una richiesta: “Voglio parlare con l’assessore”. Mi passarono il telefono e lei tagliò corto: “Non li pensate. Questi non hanno voglia di lavorare. Devono stare aperti!”. Scoppiammo tutti a ridere».

Ascoltò l’invito della signora?

«Ha dubbi? I negozi restarono aperti».

Lei ha due grandi passioni: lo sport e la politica. Queste passioni hanno trovato le ragioni di fondersi, sul piano amministrativo, con la nomina ad assessore allo Sport del Comune di Salerno nei primi anni Ottanta.

«Faccio una premessa. Io amo lo sport, il calcio e la Salernitana in particolare. Da ragazzo ho giocato nelle giovanili della Salernitana come stopper. Ero anche promettente. Ma mi ammalai e la carriera si interruppe lì, diciamo quasi sul nascere. Sono stato un po’ sfortunato. Tornando incece all’esperienza da assessore comunale alla Sport, ricordo che presi il testimone da Pietro D’Elia. Quell’impegno fu per me motivo di orgoglio ma anche una grande responsabilità. Lavorai, tra le altre e tante cose, alla questione relativa alla costruzione dello stadio Arechi. Nulla si fa da soli e naturalmente i meriti vanno condivisi con quanti in quegli anni guidarono le amministrazioni comunali di Salerno. Mi riferisco in particolare ai sindaci Salzano e Scozia. Assessore ai lavori pubblici nella fase finale di quella vicenda fu Fulvio Bonavitacola. Naturalmente anche con lui va condivisa la vittoria di quella difficile e importante partita per l’intera città. Io mi occupai soprattutto dei rapporti con il credito sportivo e con gli istituti bancari salernitani. Fu per me motivo di grande orgoglio personale e di soddisfazione per l’intera città, naturalmente, anche il ritorno del Giro d’Italia a Salerno dopo quindici anni. Ci lavorai tanto. Mancaca dal 1967».

Lei è stato segretario provinciale della Democrazia cristiana ai tempi della giunta laica e di sinistra, la cosidetta seconda svolta di Salerno in cui i democristiani si accomodarano all’opposizone dopo quasi quarant’anni.

«Paolo Del Mese e Gaspare Russo mi chiesero di ricoprire il ruolo di segretario in quella fase particolarmente delicata. Sono un uomo del fare, pragmatico. E venivo visto capace di garantire gli equilibri».

Avrebbe potuto fare di più per evitare quello ‘smacco’?

«Naturalmente tutti noi possiamo sempre fare di più nelle cose della vita di cui siamo chiamati a occuparci. Detto questo, l’onorevole Guglielmo Scarlato, personalità di straordinaria autorevolezza, si espresse allora in questi termini sulla vicenda: “Avevo già misurato la temperatura al partito ed era alta. La Dc aveva già la febbre prima di Zinna».

Quale era il male della Dc?

«All’interno del partito c’erano delle conflittualità. La colpa di quanto successe fu anche nostra».

Vi sentiste traditi dai socialisti?

« Ci fu sicuramente un impegno nazionale del partito comunista e di quello repubblicano ad andare in quella direzione. In un certo senso i socialisti furono spinti verso quella soluzione. Noi consiglieri democristiano, in ogni caso, non credevamo che quella maggioranza potesse andare avanti per tanto tempo. Quando scendevamo da Palazzo di Città la domanda retorica più ricorrente era quanto sarebbe durata quella maggioranza».

Che invece durò….

«Sì, e Giordano fu un buon sindaco».

La giunta Giordano fu travolta dalle inchieste giudiziarie del 1992 che spazzarono via per intero la Prima Repubblica e i due principali partiti di allora: Dc e Socialisti. Il primo cittadino e alcuni uomini di punta di quella amministrazione furono arrestati per poi essere assoluti con formula piena molti anni dopo.

«Un periodo politicamente drammatico. Per molte persone e per loro famiglie lo fu sul piano umano, della vita anche privata. C’era grande preoccupazione in tutti noi per il clima che si respirava nel Paese. Sicuramente, nel caso specifico salernitano e alla luce dell’esito dei processi, ci furono delle forzature».

Chi sono stati i suoi riferimenti politici?

«Michele Scozia e Gaspare Russo. Nella parte finale della mia carriera sono stato politicamente vicino e amico di Alfonso Andria. Con Alfonso eravamo già stati colleghi in Consiglio comunale. Molti anni dopo, quando fu chiamato ad affrontare la prima candidatura alla presidenza della Provincia di Salerno, mi chiese di organizzargli la campagna elettorale. E io accettai».

Le è stata attribuita, da diversi resconti dell’epoca, la definizione di “demitiano”.

«Quando si verificò la rottura tra Gaspare Russo e Ciriaco De Mita fu organizzato un incontro presso l’associazione degli industriali per verificare la vicinanza all’uno e all’altro. Io, allora, stavo dalla parte di Gaspare Russo. Detto questo, De Mita è un vero leader politico, con una straordinaria capacità di visione e di riflessione politica. Quando fui incaricato di guidare da segretario la federazione provinciale della Democazia cristiana andai a piazza del Gesù, a Roma, ad incontrarlo. Mi portò da lui proprio Gaspare Russo».

Cosa le disse De Mita?

«Mi fece gli auguri e mi salutò con un “mi raccomando”».

Le manca fare politica?

«Oggi seguo la politica attraverso giornali e telegiornali. La politica era e resta una mia passione. Purtroppo la politica di quegli anni non esiste più. Il modo di porsi. Di comportarsi. Il rapporto con la gente. Oggi è tutto molto diverso. Allora si cominciava dalla sezione di quartiere. Io sono stato segretario della sezione della Democrazia cristiana di Torrione Michele Grassi. In verità, di quella sezione, sono stato inizialmente segretario amministrativo quando Scozia era segretario politico».

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti della politica.

«Avere alle spalle il partito era fondamentale e formativo. La fine dei partiti tradizionali e strutturati, ha fatto molto male alla politica. Non hanno alcun peso né ruolo, tranne qualcuno della sinistra. La democrazia, in assenza di partiti forti al servizio del popolo, viene mortificata e maltrattata».

Il principale pregio politico che, ancora oggi, si riconosce.

«Essere una persona che sa ascoltare e un buon organizzatore».

E il difetto maggiore?

«Cercare sempre di mettermi nei guai. E soprattutto riuscirci». torale».