Michelangelo Russo
La questione dei suoli dell’ex Cementificio venduti a una società alberghiera, e oggetto di ben due esposti alla Procura, uno della minoranza consiliare e uno di circa duecento cittadini, è forse uno dei principali problemi dell’Amministrazione cittadina. Un po’ per il valore dell’affare (12 milioni di euro) e un po’ per il clamore della vicenda. Una speculazione edilizia del Comune su un bene ceduto a lui per pochi soldi dall’Italcementi, sfruttando la legge del 1986 sulle aree industriali da delocalizzare, è qualcosa di incredibile. Certo che è stato sottratto alla comunità cittadina un suolo che era stato pagato poco proprio perché, seguendo la legge, il Comune si era impegnato contrattualmente a destinare l’area a verde pubblico e parcheggio. E quello del 1995, data di acquisto dei suoli dall’Italcementi per 480 milioni di lire dell’epoca, è un contratto legittimo, si badi. Regolarmente trascritto, come si conviene, nei pubblici registri. Poi, dal 2013, iniziano strane manovre degli uffici comunali per cambiare la destinazione d’uso dei terreni più vicini al fiume Irno. Fino ad arrivare alla data del febbraio 2023 quando il suolo viene venduto, con atto notarile, per 12 milioni di euro (in realtà i lotti sono 2, uno venduto a febbraio, l’altro a luglio), dichiarando il Comune, chiarissimamente, che il suolo è privo di vincoli. Naturalmente, in premessa al rogito, vengono elencati tutti i provvedimenti amministrativi di modifiche urbanistiche che hanno portato a catalogare il suolo come edificatorio per alberghi. Benissimo! C’è insomma un bel po’ di carte e cartuscelle amministrative che farebbero pensare ad una ineccepibile procedura amministrativa, perfettamente legale, di cambio di destinazione d’uso del suolo, per cui il bene, come ha detto il Comune davanti al notaio, era privo di vincoli. Peraltro, come meticolosamente ha notato l’editorialista Malangone, nell’atto notarile le parti hanno esentato il notaio dalla necessità di verifica della regolarità del carteggio comunale sul mutamento urbanistico. Benissimo, ancora una volta! Ma la questione di fondo è una soltanto, e semplicissima. Tutti gli incartamenti urbanistici nuovi, tutte le giravolte amministrative, tutti gli alchemici e iniziatici provvedimenti della burocrazia comunale, danno una parvenza di legittimità ad un affare che è frutto di una colossale inadempienza contrattuale. Il bene in oggetto era vincolato da un contratto, solenne e notarile, in forza di legge dello Stato. Sul bene gravava un vincolo di destinazione che si chiama “onere reale”, cioè un peso (secondo le regole giuridiche del diritto civile, e non quelle volatili e spesso contraddittorie del diritto amministrativo) che gravava su quel suolo, un peso che era il vincolo di destinazione. L’onere reale, cioè questo peso, è una categoria elaborata da dottrina e giurisprudenza, purchè l’onere stesso sia prescritto dalla legge. Qualsiasi buon avvocato civilista conosce la categoria dell’ONERE REALE. E anche qualsiasi notaio. E sicuramente tutti i giudici civilisti. Ora, l’onere reale previsto dalla legge statale del 1986 impediva ogni manovra amministrativa del Comune per cambiare la destinazione urbanistica dei suoli in oggetto. Non può il diritto amministrativo cambiare la natura e le regole di un contratto di diritto civile, regolare. Altrimenti non esisterebbe il concetto stesso di proprietà. L’unico modo del diritto amministrativo di incidere sui diritti cosiddetti reali (proprietà, servitù, possesso etc.) è attraverso l’espropriazione, ma ci vogliono, per attivarla, le condizioni e una specifica, complessa procedura. Quindi, quando il suolo fu venduto nel 2023, il vincolo, dato dall’onere reale, era ancora vivo e vegeto. E ciò nonostante il Comune dichiarò che non c’erano vincoli. Ma allora che cos’è questa, se non una dichiarazione non veritiera al notaio? Ma il notaio aveva davanti l’atto di provenienza del suolo, e cioè il contratto tra Comune e Italcementi del 1995, in cui l’onere reale è descritto solennemente. Prima domanda. Il notaio doveva rilevare l’esistenza del vincolo urbanistico dato dall’onere reale risultante dal contratto? Forse si, perché la legge notarile impone al notaio la massima diligenza nella verifica dei presupposti di validità dell’atto di compravendita. Forse il notaio avrebbe dovuto chiedere spiegazioni al Comune su che fine avesse fatto quel vincolo del 1995, e non accontentarsi della generica affermazione di inesistenza di vincoli. E’ un problema che dovrebbe risolvere il giudice civile nell’ipotesi di ricorso di qualcuno a lui per la richiesta di nullità assoluta dell’atto di compravendita per chiara contrarietà a norme imperative (la dichiarazione non veritiera nell’atto notarile). E infine, è sicuro che l’acquirente sia stato tratto in inganno dalla falsa dichiarazione del Comune? Ma l’acquirente ha avuto davanti il contratto di provenienza del bene (il contratto del 1995), e ben poteva notare l’esistenza, a chiare lettere, del vincolo di destinazione. Non è scontata la dimostrazione della buona fede, ingannata dal Comune. Anche perché qui non si tratta di errore di fatto dell’acquirente, che scusa l’ingannato. Qui è un errore di diritto, che, di norma, non scusa. Insomma, un garbuglio da rinviare alle lunghe, civilmente, in caso di dichiarazione di nullità dell’atto notarile. Che farebbe comunque rientrare il bene, per l’effetto, nel patrimonio comunale, salvo a risolvere in altra sede le questioni tra Comune e acquirente.





