Aida: Pace t’imploro - Le Cronache
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Aida: Pace t’imploro

Aida: Pace t’imploro

Trionfo meritato per la lettura del capolavoro verdiano offerta da Daniel Oren, con il cui finale ha invitato tutti alla ricerca del silenzio. Belle voci dominate da un Amartuvshin Enkhbat  nelle vesti di Amonasro, senza pari,  plauso all’orchestra e ai suoi celli. Trimurti nel palco d’onore con il sindaco Vincenzo Napoli, il governatore Vincenzo De Luca e il Presidente della Camera di Commercio Andrea Prete

Di Olga Chieffi

“Pace t’imploro, pace, pace, pace!” Aida spira tra le braccia del suo Radamès, in abiti nuziali, nell’a-solo di due violini, una colomba spunta sul sotterraneo del tempio in un cielo luminoso e turchese. L’orchestra è condotta in pianissimo, quasi “soffocata dal pianto” come Amneris, tra violini, clarinetto e flauto, nello stesso climax del finale di Traviata e il Miserere del Trovatore, da Daniel Oren che implora, invita, impone a tutti da un luogo privilegiato, quale è il podio del direttore d’orchestra, attraverso uno dei finali più intensi dell’intera letteratura musicale, a cercare il silenzio, ponendosi all’ascolto. E’ questo anche l’unico messaggio, in una regia più che classica, del regista Plamen Kartaloff, direttore artistico dell’Opera Nazionale di Sofia, che ha ben saputo, su di un palco piccolo quale è quello del massimo salernitano, mantenere gli equilibri, per riuscire a far “muovere” le masse, nei primi due atti, un’immagine, la sua che accomuna la tomba di Aida e Radames, alle terre martoriate, dove oggi “regnano dolore e silenzio” (Papa Francesco benedizione urbi et orbi) e da dove pur viene un messaggio di speranza.
L’orchestra ha risposto quasi per intero alla bacchetta, particolarmente ispirata di Daniel Oren, che il prossimo anno attendiamo, magari, nel suo assoluto Nabucco, a quell’ assunzione della luce e della ricerca continua di quel timbro, di un suono che faccia da propellente alla drammaturgia, che qui ha già da guardare a certo estetismo, affidato ai legni e su tutti in veste di molla psicologica ad oboi, con il ritorno di Domenico Sarcina a prima parte e Antonio Rufo al suo fianco, e i flauti, superba triade con Antonio Senatore, Andrea Ronca e Vincenzo Scannapieco, il quale si è diviso tra flauto e ottavino, che rivestono nell’episodio della seduzione dell’atto del Nilo, interpreti di quei voluttuosi glissando su di una successione di terze e seste o nel ruolo non più equivocabile di quel flauto, che girovaga nella conclusiva scena della tomba a rammentare trascorse bellezze per immolarle nell’ultima scena. Sul cast vocale ha dominato su tutti Amartuvshin Enkabat nelle vesti di Amonasro, ampia, potente, cremosa, tutte qualità esaltate da un’emissione solidamente appoggiata e proiettata con superbo controllo del fiato e all’insegna di una musicalità straordinaria, sì da consentire il dispiegarsi del canto, lungo un ventaglio sfarzoso, unitamente all’Amneris di Ekaterina Semenchuk, la donna potente e debole, innamorata e collerica, sensuale e sospettosa, sofferente e minacciosa, convincente sicuramente nell’intensità dolorosa della consapevolezza della sua gelosia e della sua vendetta, e al Ramfis di Maharram Huseynov, voce pastosa e concentrazione espressiva, mentre non possiamo premiare che a sprazzi sia il tenore Jorge de Leon, che è stato apprezzabile Canio in questa stagione, qui attento solo allo squillo e ad andare il più vicino possibile a quel “Sol”, il Si bemolle “morendo”, poco felice, con tecnica atavica, che l’ Aida della Olga Maslova, bella voce, ma con diverse spigolosità, rigidità, con qualche passaggio nasale, tentativi di filato non tutti riusciti e soprattutto con un po’ di polvere in diversi acuti.
Ruolo minore con interprete di lusso quello del messaggero di Francesco Pittari, compito svolto anche dalla Sacerdotessa a cui ha dato voce Chiara Mogini, mentre Carlo Striuli ha speso qualche sprazzo di voce nella parte del Faraone. Assente un po’ per tutti la recitazione, la gestualità, che ha reso un po’ rigido e fermo il tutto. Sugli scudi i ballerini, con i solisti Anbeta Toromani e Alessandro Macario, coreografati da Corona Paone, per la grande scena della consacrazione finale, in cui Alfredo Troisi ha tutto posto “On a torquoise cloud”, per dirla con una pagina di Ellington e oro, con in palcoscenico statue da museo di Iside e del Gatto, mau, a lei sacro.
Ottima prova del coro preparato da Francesco Aliberti, la nuova guida, tutta salernitana, del massimo cittadino, che è riuscita a rendere riconoscibile una coralità che stava perdendo smalto e spessore, al quale è stato tributato il lungo meritatissimo applauso, unitamente all’orchestra, che è riuscita, come non mai, a coniugare trasparenza e preziosità di suoni, assecondando la concertazione di Daniel Oren, tradito, purtroppo, come sempre, dalle trombe egiziane, in cui l’equilibrio tra la parte drammatica e lirica, la giustapposizione di accenti cupi ed intimi sono risultati straordinariamente naturali. Rose sui solisti e applausi di una platea entusiasta, sovrastata dal palco reale, in cui si sono assisi il governatore Vincenzo De Luca, il primo cittadino Vincenzo Napoli e il Presidente della Camera di Commercio Andrea Prete.