Questa sera, alle ore 21, Renata Fusco e l’Antica Consonanza in concerto nella Chiesa della SS.Annunziata, con un programma dedicato alla tradizione del canto partenopeo
Di OLGA CHIEFFI
Il canto perduto di Napoli, rivivrà nella Chiesa della SS.Annunziata, questa sera, alle ore 21, grazie alla splendida voce di Renata Fusco, ospite dell’Antica consonanza che si proporrà con Giuseppe Palladino e Gabriele Rosco alla chitarra, Giorgio Spolverini al clavicembalo, Guido Pagliano alla viola da gamba e suo figlio Gabriele al colascione la. Risulta non facile fissare la specifica identità della canzone napoletana, perché essa è come un mare che ha ricevuto acqua da tanti fiumi. E’ figlia della poesia, come quasi tutti i canti di antica tradizione, e ha espresso, come le è universalmente riconosciuto i sentimenti, la storia e i costumi di un popolo. Il fatto singolare è che la canzone, “porosa” come la città – per dirla con la definizione che Benjamin coniò per Napoli -, ha assorbito tutto, riuscendo a rimanere in fondo se stessa.Malgrado sia stata contaminata, nel tempo, da sonorità appartenenti ad altre culture e ad altri generi musicali, la melodia napoletana è riuscita a conservare un suo codice di riconoscimento, un proprio DNA, quel “profumo”, che la rende inconfondibile, come una lingua perduta, della quale abbiamo forse dimenticato il senso e serbato soltanto l’armonia, una reminiscenza, la lingua di prima e forse anche la lingua di dopo.“Tu m’aje prommiso quattro moccatora…”è questo il più antico frammento di canzone napoletana che ci è pervenuto, risalente alla fine del 1200. E’ questo il canto delle lavandaie del Vomero che Pasolini, nel suo Decameron, fa risuonare nelle strade della città partenopea. Il rapporto fra le villanelle nella forma originaria e la canzone napoletana è innegabile e ce ne accorgeremo ascoltando Vurria ca fosse ciaola, Assa boccuccia Vurria addeventare e si le femmene portassero la spada. Si passerà poi ad un altro maestro rinascimentale Leonardo Primavera con Tre donne belle, seguirà la Cantata sopra l’arcicalascione “Sfogandosene ‘nu juorno, di Giuseppe Porsile, ai suoi tempi tra i maggiori protagonisti dell’affermazione della scuola napoletana nel mondo, una pagina che offre l’occasione per scoprire uno strumento oggi assolutamente desueto come il calascione, che accompagna la voce di soprano secondo una prassi molto diffusa in passato nel sud d’Italia, iniziandoci ad uno dei segreti della canzone napoletana, che non è soltanto nella vocalità morbida nella sua vena melanconica e ornata alla maniera orientale, ma anche negli strumenti che accompagnano, suadenti nella loro espressività, affidata al plettro, in cui apprezzeremo il senso assai spiccato dei limiti della coloratura virtuosistica. E siamo al Leonardo Vinci de’ “Lo cecato fauzo” “So’ le sorbe le nespole amare”, al Michelangelo Faggioli di “Sto paglietta presuntuoso” dello sfarzoso Settecento partenopeo, sino all’Haendel di “No se emenderà jamas” arcaicamente scritta con note e valori lunghi e con accompagnamento di chitarra. La incantata “Fenesta vascia e Lo Guarracino che jeva pe’ mare”, concluderanno il programma con l’affascinante, allegro ed intricato racconto che è una singolare enumerazione della fauna marina del nostro golfo lunato, che eternerà il suo infinito sorriso.