A Salerno, se si ha un malore, si rischia di non essere curati - Le Cronache Ultimora
Campania Ultimora

A Salerno, se si ha un malore, si rischia di non essere curati

A Salerno, se si ha un malore,  si rischia di non essere curati

di Alberto Cuomo

A Salerno, se si ha un malore, si rischia di non essere curati. Nella consapevolezza dei limiti della sanità pubblica il malcapitato paziente in sofferenza potrebbe rivolgersi al medico privato (quello di medicina generale non sempre è reperibile) ma sovente questi invita a recarsi in studio nei tempi legati al proprio calendario di visite, non prima del giorno successivo e persino, della settimana successiva. Qualora il nostro eroe decidesse di andare alla guardia medica, scoprirebbe che questa non esiste più, essendo sostituita da ambulatori di “continuità assistenziale”, dove si accede dopo le 20, senza però che i medici possano avventurarsi in esami e cure approfondite. Potrebbe allora telefonare al 118, che però non di rado giunge con infermieri, senza medici, inibiti a svolgere diagnosi. Resta al poveretto il pronto soccorso che, se ingolfato, lo manda via con un codice giallo, dal momento accusa solo un forte mal di testa, di fatto una meningoencefalite foriera di morte. Ma come è potuto accadere che la nostra sanità pubblica sia finita così in basso. Qualcuno ricorderà come il 1992, che segna l’inizio della cosiddetta “tangentopoli”, sia stato un anno disastroso per i conti pubblici italiani. Fu pertanto chiamato al compito impopolare di sanare il bilancio, quale capo del governo, il socialista Giuliano Amato, cui non bastò il prelievo forzoso del 6% dai conti bancari dei risparmiatori e la svalutazione della lira, per assumersi l’ulteriore compito di iniziare a smantellare il sistema sanitario pubblico nazionale reo di una spesa eccessiva. Era ministro della sanità il prof. Francesco De Lorenzo, e, dato il suo credo liberale, non gli fu difficile proporre una legge che legasse il servizio sanitario alle risorse economiche mutando le Usl in Asl, ovvero in aziende operanti secondo un impossibile modello privato e gestite non a caso da un unico vertice, il Direttore generale (è evidente che mentre un consiglio di amministrazione opera nel controllo reciproco dei consiglieri un amministratore unico non riceve controllo se non quelli sovraordinati). Impossibile perché, persistendo i guasti della gestione politica della sanità, con tangenti, nomine di manager e medici non centrate sui titoli quanto sulla fidelizzazione ai potenti di turno, non sarebbe stata sufficiente alcuna oculatezza manageriale nel coniugare risparmio ed efficienza ad eliminare i deficit. Di qui tutta la responsabilità data alle Regioni in materia di pareggio di bilancio che ha inciso sulla erogazione dei servizi alla salute. La trasformazione della sanità non era solo italiana e, infatti, nel 2001, la prestigiosa rivista inglese “The lancet” scriveva: “Negli ultimi due decenni, la spinta verso riforme dei sistemi sanitari basate sul mercato si è diffusa in tutto il mondo… il modello globale di sistema sanitario è stato sostenuto dalla Banca Mondiale per promuovere la privatizzazione dei servizi”. Di Lorenzo introdusse nella legge di riforma anche un articolo, il 9, che promuoveva la possibile sostituzione della sanità pubblica con quella privata in ragione della richiesta dei cittadini, articolo che fu rimosso dal governo Ciampi successivo che regolò la previsione di una integrazione tra pubblico e privato. Se un socialista operò per un indebolimento della sanità pubblica, non meglio operarono i governi di sinistra di Prodi e D’Alema. Alla sinistra sembrava interessare di più il rimuneramento dei lavoratori sanitari che non il benessere dei cittadini. La riforma voluta dalla ministra Bindi nel 1999, certo, operò per la territorializzazione dei cosiddetti distretti, ma in realtà, facendo assumere ai medici di famiglia la dirigenza dei distretti, aumentò anche loro gli stipendi. Negli ospedali i medici non sarebbero stati più divisi in tre fasce per entrare tutti nel “ruolo unico della dirigenza” con notevoli aumenti salariali tra il 30 e il 50%, nella decisa separatezza tra pubblico e privato addolcita con la possibilità per il medico pubblico di lavorare anche privatamente intra moenia. Tornati al governo i partiti di sinistra la sanità ebbe ministro l’on. Livia Turco che si batté essenzialmente per la sicurezza sul lavoro. Quanto ai governi Berlusconi vi era in essi una sorta di schizofrenia perché il cavaliere da un lato propagandava la fine delle liste d’attesa, migliori condizioni di lavoro negli ospedali pubblici e dall’altro tagliava risorse alla sanità pubblica per favorire le strutture sanitarie di eccellenza private, possibilmente in Lombardia. I tagli, che i governi di sinistra non avevano corretto, aumentarono già con il secondo governo Berlusconi (2001-2005) per poi essere incrementati dai governi Monti e Draghi, tanto che in quest’ultimo caso il ministro Speranza non battè ciglio allorchè in pieno Covid non furono aumentati i soldi in bilancio per il suo dicastero. I tagli sono stati progressivi e si calcola, secondo un rapporto del Gimbe, che tra il 2010 e il 2019 sono stati sottratti alla sanità circa 40 miliardi devastando del tutto il suo assetto. Il governo Meloni nel 2023 si è particolarmente rivolto a riorganizzare i presidi e gli istituti sanitari ministeriali e territoriali. Il 2024 non potrà non vedere una nuova riforma sugli standard ospedalieri e territoriali e sul ruolo dei medici di famiglia che sono sempre di meno. E non solo. Contrariamente alle critiche da sinistra il governo attuale ha incrementato i fondi sulla sanità ma dovrà concertare con le Regioni l’utilizzazione dei fondi Pnrr, che, oltre le questioni territoriali, Case e Ospedali di Comunità, non potranno non essere impegnati nella telemedicina e nel potenziamento dell’assistenza domiciliare che, come si è spiegato sopra, è ai minimi termini.