Barbara Casale, adorata figlia di Carmine, il Commissario della Stradale della Polizia di Stato, morto prematuramente per un malore, racconta a Le Cronache quei drammatici momenti. Lo fa con grande forza d’animo ma anche per denunciare come sia potuto succedere. Un ritardo dei soccorsi che se giunti in tempo avrebbero salvato la vita a Carmine. Una testimonianza che finirà in Procura per il doveroso esposto che la famiglia presenterà nelle prossime ore. “La mattina di domenica 28 febbraio, alle ore 10:39 mio padre, Carmine Casale, ha un malore. Mi guarda, poi si porta le mani al petto inginocchiandosi. Gli chiedo “Papà, chiamo l’ambulanza?”, lui non mi risponde, restando in quella posizione mentre io recupero il telefono e subito digito il numero 118. Ore 10:40, 58 secondi di attesa interminabili ad ascoltare una voce registrata. Mio fratello fa lo stesso, restando in attesa per 2 minuti e 4 secondi. Mio padre si stende a terra, mi guarda, io lo chiamo ma lui ha il viso sofferente e con gli occhi mi chiede aiuto. Ore 10:42 ricompongo il numero e di nuovo resto in attesa per 27 secondi, mentre secondo dopo secondo aumenta in me la consapevolezza che non riceverò risposta, riaggancio e chiamo il 112 dicendo che mio padre ha un infarto in corso, mi passano il 118, mentre mio nipote di 8 anni mi chiede cosa deve fare e gli dico di chiamare il 118. Lui chiama alle ore 10:43 e resta in attesa per 1 minuto e 49 secondi senza ricevere risposta. Mio padre respira, gli metto un cuscino sotto alla testa, i suoi occhi ancora mi seguono. Non ho riscontrato nulla di particolare, né aumento di sudorazione, né altro. Soltanto mi guarda e non risponde, col viso chiaramente sofferente e gli occhi che gridano aiuto. Penso che non ci sarebbe stato bisogno di una figlia in grado capire suo padre soltanto guardandolo, perché quella richiesta di aiuto in quei suoi occhi imploranti sarebbe riuscito a leggerla anche un’analfabeta tanto era chiara. Ore 10:45, ancora chiamo il 118, 57 secondi, e altri 26 secondi alle 10:46. Sono nel panico più totale, mia mamma non lascia un attimo mio padre, che respira ancora. Mentre io, disperata, alle 10:47 chiamo il 113, 2 minuti e 26 secondi durante i quali mi danno indicazioni per effettuare il massaggio cardiaco che io non so fare, tuttavia ci provo, provando anche la respirazione bocca a bocca. Nel mentre arriva un amico di mio fratello che sa farlo e prende il mio posto. 10:53, dell’ambulanza ancora nessuna traccia, richiamo il 118 e il 113 ancora alle 10:57, alle 10:58, alle 10:59. E di nuovo il 112 alle 11:00. Tra una chiamata e l’altra poggio la testa sul petto di mio padre, il cuore batte e lui respira, anche se sempre più a fatica e il suo volto appariva sempre più sofferente. Sempre alle 11:00 mio fratello chiama ancora il 118 e resta in attesa 4 minuti e 34 secondi mentre si trova giù in strada ad attendere l’arrivo dei soccorsi, per velocizzare i tempi e indicargli la scala. Alle 11:01 chiamo il centralino della sezione della Stradale della Polizia di Stato, dove mio padre presta servizio, per chiedere aiuto a loro. Alle 11:04 chiamo la sorella di mio padre mentre sono fuori dal balcone in attesa di veder l’ambulanza giungere. Torno da mio padre, che ha il respiro sempre più flebile. Passano un paio di minuti, che tuttavia a noi appaiono infiniti, e arrivano i soccorsi: un’ambulanza cardiologica proveniente da Vietri sul Mare, distante 5 km da qui, sfornita di medico e questo nonostante avessi fatto presente che mio padre stava avendo un infarto. Alle ore 11:21 arriva la seconda ambulanza, la dottoressa chiede una mascherina più grande perché quella che gli hanno messo non gli copre nemmeno il naso, sembra una misura per bambini, ma gli infermieri ne sono sprovvisti. Mi rendo conto della drammaticità della situazione, sentendomi impotente chiedo se mio padre si salverà. Non ricevo risposta. La dottoressa chiede di fare un’iniezione di adrenalina “senza nemmeno diluirla, dieci minuti e ce ne andiamo”. Capisco allora che hanno iniettato l’adrenalina a mio padre quando era già morto. Io, per terra affianco a mio padre, dico, rivolgendomi alla dottoressa, “sono arrivati tardi i soccorsi”, lei mi guarda di sbieco per poi distogliere lo sguardo e, di nuovo, senza degnarsi di replicare. Continuano il massaggio cardiaco per altri 5 minuti e alle 11:32 se ne vanno, lasciandolo a terra così. L’ipotetica causa della morte l’ho appresa in un secondo momento mentre rilasciavo sommarie informazioni a un poliziotto ed è arresto cardiaco. Mia sorella vive a 20 km, è stata avvisata da mio fratello alle 10:47, è arrivata qui alle 11:07, subito dopo l’arrivo della prima ambulanza, quella sprovvista di medico. Se per fare 20 km ci vogliono 20 minuti, perché per farne 5 ce ne vogliono 24? E soprattutto, Salerno, che si suole definire “Città Europea”, necessita che l’ambulanza arrivi da un paesino di nemmeno ottomila anime? Qualcuno ha prospettato l’ipotesi che il ritardo sia stato dovuto al traffico, in merito mi preme sottolineare che domenica 28 febbraio la Campania era zona arancione e che, soprattutto, di domenica, essendo gli uffici e la maggior parte di negozi e centri commerciali chiusi, non può esservi il traffico che c’è di solito durante la settimana e che, in ogni caso, le ambulanze, sono provviste di sirene così come la Polizia, che infatti, è giunta qui nel giro di 4 minuti. Possibile mai che in Italia la sicurezza sia più “pronta” del soccorso? Malgrado io abbia iniziato a chiamare alle 10:40, il soccorso è stato attivato soltanto alle 10:51 e l’ambulanza è partita da Vietri sul Mare alle 10:59, per giungere qui intorno alle 11:05, (minuto in più e non in meno!) La seconda ambulanza, quella fornita di medico, è venuta solo per constatare il decesso, ma per quello non avevamo più bisogno del medico!”.
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