Successo al Moa per Sergio Mari e per la sua storia raccontata anche da ex-calciatore, di quell’ abominio umano che nulla ha risparmiato
Di GAETANO DEL GAISO
Ho iniziato a redigere questo articolo, nella mia mente, mentre ancora percorrevo il tragitto che dal MOA, il Museo dell’Operazione Avalanche, mi avrebbe riportato alla mia auto, raccogliendo e riunendo i frammenti di una delle esperienze teatrali più suggestive e peculiari che la mia fortunata carriera di lavoratore dell’arte mi abbia portato a conoscere. ‘Un pallone finito ad Auschwitz’ è la storia di Arpad Weisz, l’allenatore che bruciava le tappe, il più giovane ad aver portato una squadra di calcio ad aggiudicarsi lo scudetto, ed è la storia che Sergio Mari, anch’egli ex calciatore, ha voluto raccontare sul palco del MOA. Mentre ancora l‘oscurità impedisce agli ultimi spettatori di poter trovare agevolmente il proprio posto a sedere, il riconoscibilissimo riff di ‘Wish you were here’ dei Pink Floyd, dall’omonimo album del ’75, illumina una scenografia piuttosto esile, con due valigie ad occupare il proscenio, sulla destra, una donna seduta a una scrivania impegnata nella pratica di alcune scartoffie mentre, sulla sinistra, un piccolo blocco rivestito di erbetta sintetica con uno sgabello adagiatovi sopra. E’ proprio quella che sino a poco fa armeggiava nervosamente con la penna su un mucchio di fogli a introdurci al contesto drammaturgico della pièce, lasciandoci intendere che stesse presiedendo delle audizioni piuttosto deludenti, per via della poca preparazione e professionalità degli attori sino ad ora esaminati. Ma poi, un particolare candidato, Sergio Mari, nelle vesti di sé stesso, mediato dai suggerimenti di una eccellentissima Alessandra Ranucci, ci accompagna in un percorso didascalico che procede a ritroso negli annali della storia del calcio sino ad arrivare agli anni ’30 e a quell’Ambrosiana e a quel Bologna che, in quegli anni, condivisero ben più che un semplice successo ‘accademico’: condivisero il cuore, lo spirito, la forza, la premura, la genialità di un uomo che dimostrò d’essere ben più di un semplice commissario tecnico o di un veicolo trainante per i ‘suoi uomini’, o ancora di un padre eccellente e di un marito attento, ben più di quel nemico che il regime fascista individuò in lui e nella razza a cui questi apparteneva e che costrinse a fuggire prima in Francia, poi in Olanda, poi, infine, in Polonia, facendolo terminare e scomparire, ‘spegnendogli per sempre le stelle del cielo’ fra le mura del campo di Auschwitz. Applausi convinti per questo straordinario spettacolo, che fa del cortocircuito cognitivo il principale propulsore trainante e alienante, che mette a nudo i sogni, le ambizioni, le preoccupazioni di un uomo che sente la gola stringersi, soffocata dal dolore generato dalle tremende sferzate dell’indifferenza, il più grande male di cui il mondo si sia mai macchiato, e che ancora oggi piega al proprio volere l’uomo che decide di voltare il capo dall’altra parte dinanzi all’evidenza del dolore e della morte.