Questa sera, alle ore 21, sul palcoscenico del Centro Sociale “R.Cantarella di Salerno”, Antonello de Rosa riparte dal testamento spirituale del grande bardo
Di Olga Chieffi
Questa sera, alle ore 21, il palcoscenico del Centro Sociale “R.Cantarella” di Salerno, ospiterà il debutto degli stagisti della scuola di teatro di Antonello De Rosa, i quali si cimenteranno con “La Tempesta” di William Shakespeare. Pochi mezzi molto poveri: sulla scena non ci sarà il galeone del Re di Napoli ma una barchetta, sentito omaggio a tutti coloro che arrivano dal mare, ogni cosa arriva dal mare proprio come nella commedia che sigillò l’opera immensa del commediografo inglese. Si parte dalla trama originaria, con Prospero che fa perdere il timone della coscienza delle persone intorno a sé; lo fa per vendicarsi ma anche per cercare uno sposo alla figlia. Ma questa è solo la storia da cui si apre uno spiraglio per il gioco drammaturgico tipico di De Rosa. Lo spazio di scena, non è la dimensione metafisica di shakespeariana memoria, ma un terrazzo del centro storico di Salerno, quello in cui l’attore e regista salernitano ha intrapreso il suo percorso teatrale, all’ombra di panni stesi al sole dietro cui prendevano forma le storie. De Rosa ricostruirà quel terrazzo con corde e lenzuola, per ricreare quella stessa magia, ma stavolta le ombre saranno quelle di Ariel e Prospero per rivivere una visione sempre presente. Se siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni, come diceva Prospero, De Rosa materializza quella sostanza nella stoffa, sotto un cielo di archetti che evocano ancora l’antica città longobarda. Infinite, infatti, sono le chiavi di lettura per affrontare questo testo, poiché nell’universale ricupero dell’identità individuale, nella riscoperta e riunificazione della comunità sta la conquista finale di Prospero. L’anima, di questo ultimo grande sforzo creativo del bardo si trova nella ritualizzazione di un’esperienza comune, la cui essenza apparteneva al passato, un’operazione che poteva essere affidata solo al teatro, in quanto unico genere sostenuto, all’epoca di Shakespeare, da un pubblico non del tutto socialmente selezionato, e animato da una primitiva, comune disposizione mitica. Shakespeare conosceva benissimo i limiti di questo segreto progetto, sapeva come tutti gli artisti, che i sogni e le illusioni dell’arte sono strumenti deboli se messi a confronto con le crudeltà della storia. Questo stato d’animo, metafisico e realistico insieme, si trova alla base del lungo commiato di Prospero. Lo spettacolo inscenato, il suo teatro nel teatro, finisce con la vittoria della magia benevola e la restaurazione del potere legittimo, ma anche con un’ammissione di debolezza del teatro, e con una preghiera perché i suoi personaggi siano “liberati” dalla tirannide della rappresentazione e i suoi “incantesimi” superati: il grande potere della mimesi viene trasferito agli spettatori, mentre l’effetto vitale di quell’esperienza viene approfondito dal riconoscimento del suo carattere fuggitivo, che ne trasmette l’azione nel tempo e nello spazio, a tutti coloro che vorranno ancora riconoscersi in essa – ma ormai, appunto, solo come pubblico di uno spettacolo.