Nel mese delle ciliegie ritorna uno dei titoli più amati di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Salerno. Oggi alle ore 18,30 la prima diretta da Daniel Oren. Si replica sino al 27 maggio
Di OLGA CHIEFFI
“Caro nostro e grande Maestro,/ la farfallina volerà:/ha ali sparse di polvere,/con qualche goccia qua e là,/ gocce di sangue, gocce di pianto…../Vola,vola farfallina,/a cui piangeva tanto il cuore;/ e hai fatto piangere il tuo cantore./Canta, canta farfallina,/con la tua voce piccolina,/col tuo stridere di sogno,/soave come l’ombra,/ dolce come una tomba,/all’ombra dei bambù/a Nagasaki e a Cefù”. E’ tutto raccolto in questi versi di augurio di Giovanni Pascoli Butterfly, apparsi dopo il gran fiasco della prima sul Giornale d’Italia del 20 aprile 1904. Poco più di un mese dopo, Cio-cio-San riprendeva il volo ed eccola ritornare attesissima al teatro Verdi, questa sera a ove alle ore 18,30 si leverà il sipario sull’amata opera di Giacomo Puccini, affidata alla bacchetta di Daniel Oren, che dirigerà l’Orchestra Filarmonica Salernitana “G.Verdi”, alla regia di Renzo Giacchieri, e le voci di Xiuwei Sun e Vincenzo Costanzo, Butterfly e Pinkerton. Al loro fianco, la Suzuki di Francesca Franci, lo Sharpless di Carlo Striuli, la Kate Pinkerton di Milena Josipovic, la bonzeria, con Goro (Francesco Pittari), Lo zio Bonzo (Raffaele Raffio) e Yamadori (Angelo Nardinocchi) e a completamento del cast Salvatore De Crescenzo nei panni dell’ Ufficiale del registro, il piccolo Rocco Bifano sarà Dolore e il coro femminile preparato da Tiziana Carlini. Se si osserva Madama Butterfly da un punto strettamente musicale, si ravvisano due elementi che conferiscono all’opera singolarità d’impronta: la minuziosa ricerca del “pittoresco”, reso prezioso dall’omaggio di un’orchestra fra le più attente e sagaci dell’intero nostro operismo, e l’accentramento dell’emozione su di un unico personaggio trasformato dal nostro regista in eroina da tragedia greca. La riproduzione di un colore locale non era invero gran novità per il compositore del secondo e terzo atto di Bohème e del primo e terzo di Tosca; alquanto nuova era viceversa la proiezione sulla single person dei riflessi emotivi, per un autore che si giudicava sin da allora peculiarmente atto a definire una poetica dell’ “Impressione” anzi del dramma, sul quale si intenderà puntare qui a Salerno. Quest’opera, continua ad essere acclamata dai semplici e osteggiata dai pensierosi qual sovrano limite del “sentimental”, è, intanto, al pari e forse più di Tosca, calibratissimo saggio di grafia tale da infirmare molti dei successivi europeismi da balera della novella musica nazionale, ma è anche il calco più illustre di quanto Puccini aveva incominciato ad allestire e che varrà, per ogni altra esperienze del dopo: la sedimentazione del recitativo –colloquio, di qui quel “prosastico”, in base a cui, solo, era dato valicare l’impasse del rapporto aria-declamato della vetusta eredità ottocentesca. Butterfly è, forse, la perfetta soluzione a quell’enigma proposto da Verdi nel suo Falstaff, segno che, a differenza del coetaneo fenomeno verista, invischiato nella melodia sino a scoppiarne, il fiuto pucciniano aveva trovato ancora e sempre d’istinto, la chiave giusta col rifiutare la maniera tardo-ottocentesca dell’opera francese e del lascito –Verdi, e col segnalare semmai soltanto nel carattere raffinato dell’armonia e nell’aspra condotta vocale la presenza dell’Europa, e di un’Europa opportunamente debussiana, unitamente a certa premonizione della vocalità espressionista. Il suo Giappone chiassoso e cordiale, popolato in realtà di parenti miserabili e religiosi invasati, si svelerà in totale desolazione nella catatonica ninna-nanna intonata al figlioletto nel terzo atto: triste regressione di una lettrice di fumetti al suo stadio infantile, ove si riduce in polvere l’intero arredo da parata e si trascorre al più desolato dei monologhi interiori. Il supremo artificio della Forma che in Butterfly si rinnova misteriosamente, dà ragione della tenacia con cui l’autore ne difese i diritti dopo il crollo milanese: egli la riconosceva come il suo opus massimo.