Recital corale vs recita natalizia - Le Cronache Spettacolo e Cultura
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Recital corale vs recita natalizia

Recital corale vs recita natalizia

Alfonso Vincenzo Mauro

“Ricorda di santificare le feste: / facile, per noi ladroni, / entrare nei templi che rigurgitan salmi / di schiavi e dei loro padroni / senza finire legati agli altari, / sgozzati come animali”. La narrazione sacra quale dispositivo critico che ordisce una poetica fra tradizione, istanze etiche, e Oratorio civile: non insincero il tentativo corale, nel giorno di Santa Lucia, al Teatro Augusteo, gemma del cartellone realizzato dall’Associazione Gestione Musica, presieduta da Francesco D’Arcangelo e firmato dal direttore artistico Costantino Catena, grazie al sostegno del Ministero MIC, della Regione Campania, patrocinato del comune di Salerno, di trasporre una trasposizione, apocrifare un’apocrifazione di apocrifi — riscrivere, reinterpretare e recitare De André. Già di per sé operazione non infelice, se si ricordi il buon successo dell’album “Sogno nº 1” (2011) realizzato utilizzando le tracce vocali del cantautore e inserendo una base orchestrale arrangiata in versione sinfonica da Geoff Westley per la London Symphony Orchestra. La canzone d’autore che si fa evento. In questa natività/passione lato A e B in tempo d’Avvento salernitano, sono stella cometa che meni “dritto altrui per ogni calle” rifulsi i sapienti arrangiamenti del compositore Roberto Marino (“Ho immaginato questa musica […] usando liberamente armonie e forme moderne contemporaneamente a tecniche antiche di scrittura, ho potenziato le parti vocali e costruito un nuovo tessuto orchestrale pur conservando, con rispetto, le linee melodiche e i principali aspetti dell’originale”) e le solide performance strumentali disciplinate dall’instancabile, seria e piacevolmente divulgativa bacchetta di Francesco D’Arcangelo; ma meno convincenti, per non far torto alla metafora di cui sopra, i “pastori” voci soliste e voci e corpi attoriali del Piccolo Teatro di Porta Catena, grati ai cui entusiasmi abbiamo perplesso un’aura festiva da oratorio salesiano più che da Oratorio civile. “Laudate / qualcuno. / Qualcuno / tentò di imitarlo / se non ci riuscì / fu scusato.” Evento a firma di Salerno Classica fiorito su collaborazioni plurime e plurali, il concerto ha pressoché affollato la sala. Ma anzitutto l’uno sui tutti: Fabrizio De André, e il celeberrimo concept album “La buona novella” che, “con l’urgenza di salvare il Cristianesimo dal Cattolicesimo”, trae l’aspetto più umano e men spirituale (quando non squisitamente controverso e polemico) di alcune figure di apocrifi e protovangeli. La coerenza tematica dell’album è rigorosa — meno quella delle economie sceniche dell’evento di sabato; la prospettiva laicizzante restituisce l’evangelicità a dimensione affatto terrena — a dimensione di ignara recita vagamente free spirit, sabato; affatto terrena e conflittuale, con segno politico-ideologico chiaro, sartorialmente cucito addosso a Faber. Molteplici le (re)interpretazioni teatrali e teatraleggianti — ultima, temporalmente, quella salernitana con voci soliste e narranti, Emanuela Baldi e Daniele Simeone, Igor Canto e Cristina Recupito; coro Estro Armonico diretto da Eleonora Laurito e coro Calicanto diretto da Milva Coralluzzo e Silvana Noschese; Orchestra ICO 131 della Basilicata diretta dal D’Arcangelo; incursioni attoriali del Piccolo di Porta Catena con Ciro Girardi, Stefano Schiavone, Temi Capuano, Floriana Darino, Elisabetta Benincasa e Giovanni Carratù, per la regia di Franco Alfano. Non semplice tenere insieme tutto dare compattezza scenico-contenutistica. Un carro di Juggernaut nella complessiva coerenza del cui incedere massiccio e diseguale era inevitabile una parte brillasse, mentre altre idee si ponessero da sé nella zona d’ombra della ridondanza, se non dell’inavvertita incongruità. Fin dai vocii iniziali che rompono la quarta parete, mentre dal fondoscena occhieggiano proiezioni di Giotto, Mantegna, Michelangelo (ad libitum); ai verbosi raccordi testuali tra i brani, in parte citazioni copia-incollate in parte originali; alla biondina Maria saltellante sull’assito; ad alcuni gesti una tantum dei figuranti, la prossemica performativa è tentata, fortunatamente con parsimonia, ma non esplorata strutturalmente, rischiando l’aggiunta postuma, il disincastro e la gratuità di alcuni momenti — uno su tutti gli indicibilmente tragicomici “consigli esistenziali” dati dagli attori a bordo scena: “Canta e balla sempre, anche se puoi farlo solo nel salotto di casa tua”, “Esplora, usa il tuo corpo” (sic!)… Altrettanto retorico, ma stavolta dolorosamente necessario e fedele allo spirito dell’album, il video da Gaza distrutta proiettato alle spalle mentre un Tutti di fine atto II marcia a mo’ di IDF assassine e genocide per volontà e con la scusante dello stesso libro “sacro” delle feste cristiane. Bene l’inciso. Più didascaliche ancora (“Cos’è la buona novella per te?”), ma ora da comunicazione di servizio, gli incredibilmente prolissi ringraziamenti finali durante i quali, tra interventi di autorità e un parroco chiamato in scena per teme di dimenticarsene, parte del pubblico ha accarezzato il sollievo di poter defluire. Torreggia, sulla poliedrica operazione dalle tante membra, la Musica. Ed essa non ha deluso gli affezionati di De André e i melomani il cui orecchio si è presto teso nelle congrue e pregnanti e sempre buone e sempre novelle trasmogrificazioni dell’ordito originale grazie all’estro di Marino e al lavoro di direttori e direttrici. Laudate hominem. Pur nelle voci soliste — massime la maschile — che si son dovute misurare ìmpari col confronto con il maestro cantautore e la passione dell’uditorio non tutto di bocca buona, è opinione sine ira et studio meglio sarebbe andata se l’Oratorio fosse stato affidato alla sola, impeccabile performance musicale, senza horror vacui nelle cui grafomanie rischiare di sottrarre a un vespro di bello complessivo la pulizia formale del delicato. Soprattutto quando delicato polemico. È risaputo quale proverbiale sinistro anatomico venga fatto seguire al Troppo. Ma a Natale “il troppo e ‘l vano” a paillettes sono d’uopo, e, d’accordo con il plauso del pubblico, non si dica male. Anzi! L’eclettico, onnicomprensivo apocrifo chantant è stato salutato calorosamente dall’uditorio già fattosi co-interprete nel bis del celebre Testamento di Tito. “Memento, ut diem sabbati sanctifices”: facile, per noi ladroni.