Dottoressa Grandinetti: il ciuccio per gli adulti - Le Cronache Attualità
Attualità Campania

Dottoressa Grandinetti: il ciuccio per gli adulti

Dottoressa Grandinetti: il ciuccio per gli adulti

di Erika Noschese

 

 

Dimenticate i trend del passato: la nuova moda che sta infiammando i social media è un accessorio inaspettato, il ciuccio per adulti. Nato come presunto metodo antistress in Cina, il fenomeno ha guadagnato una visibilità globale, diventando un vero e proprio tormentone virale, soprattutto in Brasile, dove è stato amplificato da celebrità del calibro di Neymar. Ma dietro l’apparente innocenza di un gesto ludico e la patinatura di glitter e strass, si nascondono implicazioni psicologiche e fisiche che vanno oltre il semplice scherzo.

Mentre il dibattito sull'”adultizzazione” dei minori, esposti sempre più precocemente a dinamiche online, si fa sempre più acceso, un fenomeno parallelo, l'”infantilizzazione” degli adulti, emerge prepotentemente. L’uso del ciuccio, che segue a ruota la mania delle bambole “reborn”, sembra indicare un bisogno crescente di regredire a uno stato di sicurezza e comfort infantile, per sfuggire alle pressioni e allo stress della vita moderna.

Abbiamo chiesto alla dottoressa Antonietta Grandinetti, vicepresidente del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Campania, di aiutarci a decifrare il significato di questo trend e i rischi di una “promozione” implicita, specialmente quando veicolata da personaggi pubblici.

In che modo la visibilità offerta da personaggi pubblici come Neymar o Justin Bieber amplifica e normalizza tendenze comportamentali che altrimenti rimarrebbero di nicchia, e quali sono i rischi di questa “promozione” implicita?

«Molto spesso, l’adozione e la promozione di comportamenti da parte di personalità note che possono diventare un modello non tengono conto del significato simbolico di quel comportamento e di come questo venga recepito dalle persone che lo mettono in atto. È un atteggiamento che viene visto con leggerezza, fatto come un gioco, ma su persone con una struttura maggiormente vulnerabile assume un altro significato».

I social media, con la loro enfasi sull’autoironia e l’esposizione personale, possono creare un ambiente che incoraggia l’adozione di comportamenti regressivi, contribuendo a un’ambigua percezione tra scherzo e disagio reale?

«Tutti i mezzi di informazione hanno la responsabilità di veicolare i messaggi nel modo giusto. Se un determinato comportamento viene inteso come ludico da una personalità dello spettacolo o del mondo calcistico, ha un valore puramente ricreativo. È chiaro che in un modello di comunicazione come quello in cui viviamo, dove le informazioni arrivano da tantissime fonti, a partire dal vastissimo mondo dei social, non tutto può essere filtrato. Di conseguenza, ognuno di noi ha una propria reazione a ciò che legge, vede e sente».

Il ciuccio per adulti, pur essendo un trend globale, sembra avere una risonanza particolare in Brasile, così come le bambole “reborn”. Ci sono fattori culturali o sociali specifici che rendono questi Paesi più recettivi a tali fenomeni?

«Non saprei dirlo. Sicuramente però in questi Paesi esiste un modo più “colorato” di affrontare certe cose. Senza dubbio, sia la moda delle bambole sia quella del ciuccio hanno a che fare con un’infantilizzazione dell’adulto. È proprio questo il passaggio significativo: forse c’è un modo di intendere anche la responsabilità e la vita in maniera un po’ più infantile. Chi risponde a questo modello accetta un approccio relazionale di tipo infantile».

Come si può spiegare l’apparente disconnessione tra i rischi fisici evidenziati dai dentisti e la ricerca di un beneficio psicologico immediato che spinge a usare il ciuccio?

«Noi sappiamo bene che, se un comportamento ci fa male, non lo mettiamo in atto. Perciò, il sollievo provato dalla suzione, che genera una sensazione di piacere e di riduzione di stati d’animo negativi, va a potenziare la ricerca di quel comportamento anziché allontanarlo. Sappiamo, come nel caso delle dipendenze, che la consapevolezza dei rischi di una certa azione non impedisce alle persone di metterla in atto. Sebbene non sia la stessa cosa, è chiaro che quel palliativo temporaneo che riduce stress e ansia può essere ricercato, spingendo a ripetere quel comportamento e quell’azione anche di fronte agli allarmi sui rischi per la salute orale».

Di fronte a un paziente che manifesta un bisogno di “autoregolazione” emotiva attraverso l’uso del ciuccio, quale sarebbe il primo passo in un percorso di supporto psicologico o clinico, e come si differenzierebbe dalla semplice disincentivazione di una moda?

«Una moda di questo tipo viene accolta in modi diversi dalle persone. Bisogna imparare a regolare le emozioni e a gestire il sovraccarico emotivo. Un percorso psicologico interviene proprio su questo, sia per quanto riguarda lo stress sia per le emozioni interne che possono essere più difficili da gestire in una fase particolare della vita. Pensiamo a eventi come una separazione, un lutto o altre emozioni negative che, fisiologicamente, ci accompagnano. La regolazione emotiva viene gestita in una relazione tra psicologo e paziente, che nasce dalla richiesta di aiuto. È importante stimolare le persone a chiedere aiuto e a cercare modi adattativi per superare situazioni di stress o difficoltà».

I principali social su cui ha avuto slancio questo trend sono frequentati per lo più da preadolescenti e adolescenti, in Italia. È possibile che questo fenomeno si espanda anche a loro?

«Rientra nei rischi classici dell’uso non guidato dei social da parte di bambini, giovanissimi e adolescenti. Sarebbe importante una diffusione di informazioni sui significati anche simbolici di questo comportamento. È vero che i ragazzi tendono a imitare tutto ciò che vedono. Per i giovanissimi, l’uso del ciuccio è forse troppo vicino all’essere bambini, ed è perciò un modello più usato dagli adulti. Tuttavia, prestare attenzione a ciò che i ragazzi vedono e a ciò che viene filtrato attraverso i social è fondamentale. Non è solo questo fenomeno, ma anche altri modelli che possono normalizzare comportamenti che, forse, andrebbero riconosciuti come a rischio anziché normalizzati».