Antonio Manzo
Assolto Vincenzo De Luca. Assoluzione con formula piena. Familista sfrenato? No. Politico a tutto tondo? Certamente sì. I giudici gli hanno riconosciuto la legittima difesa in questa truce stagione politica che lo vede vestito con armatura rigorosamente coperta dalla solita grisaglia blu. Da mancato candidato a sponsor del figlio al vertice del Pd campano. Perché assolto per legittima difesa? La reazione è proporzionata all’offesa, c’è scritto nella sentenza con le stesse parole del codice penale. Lui si ricorderà le parole proverbiali di Giulio Andreotti sul “chi pensa male fa peccato ma quasi sempre indovina” . E proprio a Vincenzo De Luca, da cinquant’anni politica con una laurea in filosofia con l’ottimo Biagio De Giovanni, cibo gramo da funzionario del Pci, non sarà sfuggito il fatto che, aver subìto, dopo questo avvio di campagna elettorale alle Regionali, che il vento non sarà più a lui favorevole dopo aver lasciato le stanze areate e assolate di Palazzo Santa Lucia. Precisato che lui, ha ripetuto anche nell’intervista alla tv La 7, non ha fatto un accordo per portare Piero alla segreteria regionale del Pd, intimamente sa bene che dopo averlo messo da parte alle Regionali, avrebbe potuto far rischiare anche il seggio parlamentare al figlio. E per di più, con la ripresa del coro moralisteggiante del “tutti fuori i cacicchi” il cinismo del mai stimato Pd lo avrebbe fatto cantare a tutti gli improvvisati politici che, a differenza sua, sudano sette camicie per ottenere il voto del portiere del palazzo. Il coro, guidato da Elly Schelin, avrebbe trovato, intonati e non, pronti a cantare con lo sventolio della bandiera dell’unità per tentare di mandare a casa la Meloni. Sì, assoluzione piena per De Luca con la sentenza di legittima difesa dall’aggressione. Meglio prevenire che combattere. E c’è l’assoluzione piena con il riconoscimento della legittima difesa da un atto di violenza politica che gli avrebbero potuto perpetrare i “puristi” del Pd dopo aver conquistato sul campo larghissimo il populistico consenso con la confusione e demagogia. Sia chiaro il documento che gira con le firme di politologi, sociologi, mafiologi, pone delle questioni politiche da discutere ma è ben chiaro che si tratta del prodromo di una condanna per lui e per il figlio Piero senza possibilità di appello. Quale migliore azione d’attacco con il nuovismo, con un calcio di rigore netto dove non c’è nessun Var da implorare? Perché avrebbero in ogni modo tirato l’assist del familismo amorale, della presunta corruzione politica, del saper fare riconosciuto nella pratica ma troppo dittatoriale nello stile. Poco concertativo, direbbero gli uomini che in politica emettono suoni e non pensieri e si presentano da preti spretati con la finzione scenica di voler perfino celebrare Messa pur non potendolo fare. Nel caso politico-familistico nessuno parla del tentativo, riuscito, della valanga di fango che colpì Roberto De Luca, vittima di un finto pentito di camorra che voleva trattare dei rifiuti. Nessuno ricorda le inchieste fatte per il figlio Piero che, secondo i Pm, sarebbe andato a Lussemburgo non per lavorare ma per verificare i conti in banca. Tutti questi esempi avrebbero dovuto sollecitare i garantisti di casa nostra a non assistere sorridendo sotto i baffi della presunta colpevolezza. Genitori e figli, nella politica di Terza Repubblica, sono diventati l’algoritmo implacabile della nostra attitudine meritocratica nazionale. Sono, purtroppo ancora i tempi, del “mi manda papà”. Non fa niente che De Luca non è un solitario nella ormai lunga anagrafe politica del “mi manda papà”. Assisteremo anche per le prossime elezioni regionali ai cognomi riconducibili direttamente ai genitori politici che viaggiano alla ricerca di un posto di lavoro sicuro nel Consiglio Regionale. C’è la dynasty Mastella con il figlio Pellegrino che dovrà anche sopportare gli scherni dell’essere nato e vissuto da democristiano, la dynasty Conte con Federico, già parlamentare pd, Rosaria Aliberti, figlia del sindaco di Scafati, Massimiliano Manfredi, fratello del sindaco di Napoli Gaetano, già parlamentare pd, Italo Cirielli figlio di Edmondo vice ministro degli Esteri, Ira Fele, moglie del deputato Michele Schiano. Un grande romanzo italiano che si srotola sempre uguale dal caso Montesi in poi, dove non contano i colpevoli ma basta la fiducia nel pettegolezzo stampato sulla scheda del “mi manda papà”. Funziona naturalmente anche all’inverso, con le più classiche colpe dei padri che s’abbattono sui figli: Di Maio che voleva le dimissioni di Renzi per la bancarotta fraudolenta di Tiziano Renzi, il Pd che chiedeva le dimissioni di Di Maio per i capannoni abusivi dell’impresa paterna, Saviano che raccoglieva appelli contro Maria Elena Boschi per il padre indagato nell’inchiesta “Banca Etruria”, e potremmo andare avanti a lungo. Pare davvero che la verità giudiziaria arrivi poi come un corollario, un’appendice trascurabile. Comunque vadano a finire, sempre queste storie riflettono una società arcaica dove non esistono individui ma genitori, figli, affiliati, cerchi magici. Nel caso del cognome De Luca, al vertice regionale del partito e parlamentare pd, è l’insofferenza per i fatti e le responsabilità individuali. E in quanto figlio-simbolo è già colpevole. Colpevole, con suo padre, di esprimere “un sistema economico e di potere che replica, alimenta e legittima giorno dopo giorno la cultura della violenza” direbbero gli estremisti dell’Anti-deluchiano e dei Collettivi del Pensiero Democratico. E naturalmente, De Luca padre e figlio colpevole tutti i tipi di patriarcato possibile: di “patriarcato inconsapevole” . di “destra patriarcale” (secondo la Schlein), di “politiche patriarcali razziste e fasciste”. Si dirà che le scorribande dei figli di politici al governo offrono sempre ottimo materiale all’opposizione in ogni paese. Ma intorno al caso De Luca si mobilitano anche i soliti fantasmi, dal familismo amorale alla fascinazione per le fumisterie patriarcali e astrazioni ideologiche tratte dalla scuola di Edward Banfield che, non a caso, verificò il concetto sociologico nel 1958 in un paesino della Basilicata. Ecco: De Luca, proprio a fagiolo, si può ricordare che è un lucano. Entrambi gli schieramenti politici sembrano infischiarsene dei fatti che, come al solito, non appassionano granché. O le solite accuse vaghe e fumosissime a sistemi di potere, strutture e sovrastrutture simboliche, risalendo sempre all’alba di tutte le colpe, il capitale, il profitto, il pater familias. Che qui si esiste come parte di una famiglia, o come pedine di “sistemi”, mai però come individui. Se questa è la realtà, se il principio per cui la solidarietà come bene universale è stato frantumato e gettato in pasto allo scontro politico sempre più becero, crediamo ancora nella capacità di pensiero. Sinceramente, di voler essere divisivi. Essere divisivi per essere geneticamente impossibilitati ad essere dalla parte di chi si chiude entro i propri confini moralistici e vagamente culturali. Di chi riduce tutto ad una polemica politica pretestuosa, di chi preferisce chiudere gli occhi e nascondere la cenere sotto il tappeto. Se divisivo significa stare dalla parte degli ultimi, dalla parte di chi viene “dopo”; se divisivo vuol dire considerare la solidarietà senza confini e barriere, un valore a cui ispirare la propria vita, scatta l’orgoglio di essere divisivi. Devi essere dissuaso e dunque processato comunque quando sei a tutela di te e del tuo lavoro, oppure devi essere, in quanto innocente bersaglio di un’aggressione, presunto innocente fino a prova contraria? Bisognerebbe ragionare su questo, senza paraocchi di alcun tipo, perché di questo poi si tratta. La proporzione geometrica in fatti umani non esiste, men che mai nei fatti politici caserecci., C’è un’ala di estremismo politico antifamilista che si considera perdente e che eccita gli animi, atrofizza i cervelli, costringe tutti alla più tremenda delle sudditanze: la menzogna ideologica, come accade adesso con la spinta del più stupido degli iscritti al partito-setta. Che finge la purezza irrealistica di una politica libera dai suoi impacci. E fa rifugiare nell’insulto. Sarebbe il caso che sociologi, politologi, mafiologi di stagione ricordassero a tutti l’aggressione preleettorale riservata a Vincenzo De Luca a due giorni dalle elezioni, la presidente dell’Antimafia del tempo e del Pd (acronimo Partito della Distruzione) Rosy Bindi, lo inserì in una lista nera cosiddetta degli “impresentabili”. Le ombre giudiziarie per giustificare il giudizio antipolitico sulla politica, con il bollino di una commissione parlamentare. Incredibile, ma è accaduto. De Luca, secondo la facinorosa Bindi, aveva fatto pressione per salvare il posto di lavoro di molti dipendenti dell’Ideal Standard, il caso Sea Park, con un processone per associazione a delinquere che evitò allo stesso De Luca il carcere chiesto per ben tre volte. Ma era il Paese dove la violenza gratuita, arbitraria, utilizzava la clava del potere giudiziario. Era ed è prassi diffusa. Passare da un padre a un figlio oggi non è divisivo, ma diventa criterio unitivo per il fanatismo politico.





