di Aldo Primicerio
Ma si può scrivere che lo sciopero del 29 aprile ha bloccato il Paese? Eppure da una certa parte si è scritto. In senso spregiativo e con toni di condanna. E’ questo il concetto che oggi ha questa politica di uno sciopero indetto dai sindacati. Ed è così che Salvini e soci l’hanno buttata ai microfoni. Una bugia vergognosa. La verità è che sul lavoro siamo allo sbando completo. Dal 1991 ad oggi un salario medio in Italia è diminuito di oltre 1.000 euro. Date un’occhiata allo studio della Fondazione Di Vittorio sull’andamento degli stipendi nel confronto tra 4 Paesi, Spagna, Francia, Germania, e Italia. In Spagna i salari sono aumentati di € 2.569, in Francia di € 9.681, in Germania di € 10.584. In Italia? Il contrario, perché sono scesi di € 1.089. Un andamento legato anche, ricorda lo studio, al ristagno della produttività, che dipende in gran parte dagli strumenti messi a disposizione del lavoratore. Il mancato adeguamento dei salari all’inflazione – scrive Il Fatto – ha generato un perdita di oltre 5mila euro in quattro anni: si tratta della differenza tra le retribuzioni contrattuali e il livello a cui sarebbero arrivati i salari se fosse scattato in modo automatico l’adeguamento all’inflazione. Simulando una situazione nel senso seguito finora tra 5 anni, nel 2029, la perdita potrebbe salire a € 15.500!
Un’emergenza salariale, occupazionale, ed anche esistenziale nel confronto con i dati di altri Paesi UE
Altro che crescita! L’Italia sembra un disastro. Ha gli stipendi fermi da 30 anni, il tasso di occupazione più basso in Ue, 62%, contro il 77 della Germania, l’84 dei Paesi Bassi, ma anche, si pensi, il 67% della Grecia. Le tre peggiori regioni italiane? Sicilia (48,7%), Calabria e Campania (48,4%). Bolzano, Bologna e Verona sono le province con il tasso di occupazione più alto, Reggio Calabria, Crotone e Caltanissetta le peggiori. Il dato italiano è inoltre dopato dalla norma secondo cui risulta occupato anche chi ha svolto solo 1 ora di lavoro retribuito nella settimana, per esempio i lavoratori a chiamata: ed aggiungiamoci il dato IStat secondo cui più di 1 lavoratore su 10 è in povertà. E non si contano quelli a nero, che sgobbano per 16 ore al giorno per 100 euro al mese. E quindi è messa sotto i piedi la nostra Costituzione che prevede una retribuzione in ogni caso in grado di garantire una vita dignitosa. Che siamo un disastro è un’espressione esagerata? Allora vogliamo aggiungere che siamo un Paese con 3 milioni di “neet”, di giovani sotto i 30 anni che non studiano, non lavorano ed hanno smesso di cercarlo? Sono il 17,7% dei nostri giovani, un dato che ci umilia all’ultimo posto in Europa, persino peggio di Romania (14,5%) e della Grecia (14,1%). Quando la nostra presidente del Consiglio Meloni, il vice Salvini ed il ministro Giorgetti gonfiano il petto cianciando che siamo in crescita e che la nostra manovra piace, ci fanno ridere. Anzi piangere. Doveva soccorrerci il Pnrr che prevedeva la creazione di 265mila nuovi posti di lavoro. Il governo li ha ridotti a meno della metà. E si sa perché? Perché dobbiamo armare l’Ucraina. E riarmarci anche noi.
C’è la guerra. L’UE chiama i Paesi al riarmo. Per la von der Leyen è il momento di costruire una vera Unione Europea della difesa
Finora più della metà delle armi in Europa è di importazione statunitense, ed un terzo delle esportazioni di armi è prodotto in Ue, un segno di una capacità industriale militare europea di forte rilievo, ed anche la risposta ad una maggiore domanda di difesa missilistica di fronte allo spiegamento imponente di missili e di droni della Russia contro l’Ucraina. La Nato ha chiesto all?Europa di portare la spesa in armi al 2% sul Pil. Noi in Italia prevediamo di arrivare all’1,58%, con 31,5 miliardi di euro, più di quanto si era previsto l’anno scorso. Tanto, eppure niente in confronto a quanto un Paese come la Russia, direttamente impegnato nella guerra contro l’Ucraina. Si pensi che Putin spende per gli armamenti il 35 per cento del suo bilancio, più di 120 miliardi di dollari l’anno
Italia verso bassa crescita, bassa produttività, bassi salari. basse prospettive professionali. E la ripresa?
Perché non cresciamo come vorremmo? Innanzitutto siamo il Paese forse con il più alto numero di contratti di lavoro in Europa. Pensate, sono 1.000 quelli depositati al Cnel, di cui 971 relativi al settore privato, 18 al settore pubblico e 44 accordi economici collettivi che riguardano alcune categorie di autonomi e parasubordinati. Una giungla. Se nel 2023 sulle retribuzioni si è respirato un po’ meglio è stato grazie ai rinnovi o integrazioni nei Ccnl del commercio, del credito e delle assicurazioni. E gli altri settori? L’industria ad alta tecnologia, quella ad alto valore aggiunto, è calata dall’11 al 10% negli ultimi 9 anni. Di converso sono aumentati i servizi a bassa qualificazione. Ne è conseguita una crescita dell’occupazione nei servizi a bassa produttività, quindi con bassi salari e basse prospettive professionali.
La ripresa? Ci sarà. Forse. Ma lenta e assai condizionata dal perdurare di una elevata incertezza del quadro internazionale, e da eventi imprevedibili come tensioni geo-politiche, guerre, epidemie, catastrofi ambientali. L’economia italiana si è indirizzata verso una crescita lenta, con poco valore aggiunto, bassi investimenti in tecnologia e produttività. Il resto lo ha fatto il Jobs Act , la ricordate?, la riforma del lavoro del 2016 di cui era orgoglioso l’allora presidente del consiglio Matteo Renzi. Che è ancora in vigore. Ha contribuito al peggioramento della qualità del lavoro, incentivando contratti a termine e part-time nei servizi meno qualificati. Si è rivelato un disastro, una enorme, infinita iniezione di precarietà