Angeli e demoni le ombre di Tosca - Le Cronache Spettacolo e Cultura
Di Olga Chieffi
Teatro dell’ Opera nazionale d’Albania tutto esaurito, colpo d’occhio d’abitudine, con un titolo così amatoquale è Tosca, che è andato a chiudere il lungo segmento del cartellone operistico, dedicato a Giacomo Puccini, in occasione del centenario della scomparsa, che il direttore artistico, Jacopo Sipari di Pescasseroli, bacchetta pucciniana d’elezione, ha realizzato di conserva con il sovrintendente Abigeila Voshtina, passando per ben quattro titoli, Il Trittico, La Bohème, Madama Butterfly e Tosca, in sinergia con la Fondazione Puccini, rappresentata in Tirana da Franco Moretti e Paolo Spadaccini. La regista Manu Lalli ha voluto quale assoluta protagonista dello spettacolo la luce, con schizzando un palcoscenico pieno d’ombra e di mistero su cui i personaggi, questi prigionieri del melodramma che tentano di liberarsi, contorcendosi caravaggescamente, sono riusciti a compiere magnificamente il proprio viaggio e ad attuare il proprio cambiamento. La Lalli, conscia di ciò, ha filtrato, giocato, amato la luce, servendosene per le sue scene, a cominciare dal I atto in cui il Crocifisso di Sant’Andrea della Valle oscillando longitudinalmente proiettava un’ombra diabolica e angelica allo stesso tempo, ripresa, nella seconda recita, da una Eva Golemi la quale, saltando dalle mura di castel Sant’Angelo, con grande decisione e indossando la cappa nera, è parsa voler rievocare ibrida e inquietante. Dalla luce porpora e oro della chiesa, si è passati al nero dello studio di Scarpia ove emozioni, passioni, decisioni, cambiamenti, personaggi, nel momento del redde rationem tra il Barone e la Diva, il popolo in nero, è stato chiamato ad affacciarsi, guardare, attraverso le tende, ridere, giudicare, una intuizione della regista, ispirata al fattaccio avvenuto nella casa del Grande Fratello Spagnolo Vip, ma simbolo anche di una Roma che diventa, così, un riflesso della decadenza dell’anima umana sotto un regime oppressivo. Finito il Barone, in modo classico da locandina, anche gli abiti, in tagli e colori, risalgono a quella realizzata da Adolf Hohenstein nel 1899, la morte regna padrona nel III atto con l’alba romana e la sua luce che libera le anime di Tosca e Mario Cavaradossi. Di grande intensità il finale del I atto con Scarpia, reso con lo stringersi del cerchio del popolo romano ai piedi di un clero dominante, quasi a ricordare le colonne del baldacchino del Bernini. Il direttore Jacopo Sipari, alla guida dell’Orchestra del Teatro di Tirana, siamo certi ami Tosca, crediamo, per la scommessa realistica cui lo incita. Il racconto di questa nuova produzione di “Tosca” evidenzia un’interpretazione profonda e articolata di un’opera che, pur con le sue linee drammatiche acclarate, continua a suscitare riflessioni e interpretazioni diverse. Il Maestro ha dovuto lavorato con due cast, che hanno portato ciascuno una visione unica dei personaggi, che hanno permesso al Maestro ancor di più di scavare a fondo nelle complessità psicologiche e nelle tensioni emotive dei protagonisti. La menzione di Jacopo Sipari suggerisce un direttore d’orchestra attento, capace di mettere in luce le sfumature di una partitura ricca e densa, mentre il riferimento a un “dramma sado-masochista” invita a rivalutare la lettura di “Tosca” oltre la superficie di un’opera di romantica passione. La capacità del Maestro di dare vita a un puro palpito psicologico attraverso le voci e il lavoro orchestrale ha arricchito la rappresentazione di significati ulteriori, facendo di Tosca e Mario non solo amanti, ma anche prigionieri delle loro oscurità. In particolare, l’interpretazione di Scarpia da parte di Carlos Almaguer è emersa come una forza magnetica, capace di dominare il palcoscenico e trasmettere l’intensa ambivalenza del suo personaggio. La sua presenza sembra incapsulare una delle chiavi di lettura più affascinanti dell’opera: l’oscura danza tra potere e vulnerabilità, tra amore e odio. La sottolineatura degli elementi orchestrali, con violini capaci di evocare ogni emozione sino legni alla “soffocazione”, hanno un quadro sonoro evocativo e denso, portando lo spettatore a immergersi in un mondo di passione ed angoscia, ricco di contrasti. Infine, particolare menzione ai violoncelli che hanno suggerito un’interessante stratificazione sonora, contribuendo a questo affresco drammaturgico che va oltre l’esecuzione musicale, promettendo un’esperienza teatrale completa e immersiva. Orchestra messa, per il nostro sentire, troppo comoda all’inizio dell’opera, non in grado di comunicare quel mix di concitazione, paura e sorpresa che attanaglia l’Angelotti, fuggito da Castel Sant’Angelo e inseguito dagli scagnozzi di Scarpia e la sorpresa del Cavalier Cavaradossi che deve aiutarlo col fiato sul collo di Tosca e di quanti possano entrare in chiesa. Percussioni da rivedere nel Te Deum, con cassa sorda che ha, invece da essere l’anima di Scarpia e colpo di cannone sorprendentemente quasi sempre in ritardo e abbiamo rilevato anche l’assenza della tuba tra gli ottoni. Abbiamo avuto l’onore e l’onere di assistere alle prime due recite e tra i due soprano Krassimira Stoyanova, la quale per un’indisposizione ha dato poi forfait per la terza recita, ed Eva Golemi che ha dovuto sobbarcarsi due rappresentazioni di seguito, l’ ha vinta il soprano albanese, con la parola pronunciata e il suono sempre in avanti, ed una caratterizzazione di grande spessore, nell’attesa aria “Vissi d’arte”, mentre i suoi numeri, validi in particolare nella recitazione, sono stati apprezzati nel significativo “parlato” sigillato da quel “E avanti a lui tremava tutta Roma”. La Stoyanova, certamente in non buone condizioni fisiche, ci ha instillato il tarlo del dubbio di dove fosse mai Puccini: alcuna attenzione alla parola, recitazione quasi nulla, voce bella, controllata, ma Tosca aveva già lasciato il palcoscenico prima di salirvi. Diversi i due tenori, pittore, rivoluzionario e amante Amadi Lagha, raffinato cavaliere, invece Saimir Pirgu: se lo squillo di “Vittoria, Vittoria!” appartiene per intero al primo, anche le due arie sono risultate opposte con “Recondita Armonia” alla quale è affidato il primo momento di contrasto, con i colori evocati dai versi che si trasferiscono dalla tavolozza di Mario Cavaradossi al timbro dei due flauti, movendosi per quinte e quarte parallele, con impressionistiche pennellate, introducendo la lirica esaltazione della bellezza femminile, giocata con spavalderia da Lagha e con un melange melanconico da Pirgu e “Lucean le stelle” eseguita da entrambi ispirata dal velluto del suono del clarinetto di Elton Katroshi. Carlos Almaguer ha prestato a tutti i cast la sua voce possente e versatile, sino a rendersi subdola, di grande scuola e pari esperienza, al barone Scarpia, calandosi nel ruolo con eleganza e distacco.  Tecnicamente soddisfacenti i comprimari, anche se si è sentita la distanza, la gioventù e, quindi, l’inesperienza, con i protagonisti in palcoscenico con Bledar Domi nel ruolo di Cesare Angelotti,  Spoletta, un Matias Xheli di grana troppo chiara ed Erlind Zeraliu, Sciarrone Genc Vozga ed un carceriere Erion Sheri. Merito, per il basso buffo, Artur Vera il Sacrestano, e per, Rovena Xhelili che se l’è ben cavata con la non facile aria del pastorello “Io de’ sospiri” in modo lidio. Proficuamente preparati il Cori e le Voci Bianche, guidate rispettivamente da Dritan Lumshi e Sonila Baboçi. La compagnia si è prodotta anche per uno spettacolo per le famiglie, espunto di ogni episodio violento, con Dorina Selimaj e ancora Amadi Lagha, protagonisti e diretto dal valente direttore georgiano Vakhtang Gabidzashvili. Applausi per tutti e diverse chiamate al proscenio per i protagonisti e per il Maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli.

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