Andreotti: vittima della memoria pubblica a rate - Le Cronache Ultimora

Di Antonio Manzo

La liturgia quotidiana nell’ufficio di palazzo Giustiniani al Senato non cambia. Il presidente Giulio Andreotti arriva poco dopo le nove e varca la soglia dell’ufficio di senatore a vita. Il primo gesto della giornata è infilare il cardigan di lana come ama fare per comodità nelle ore che trascorre alla sua scrivania. Lo ha fatto da premier, per una vita, e continua a farlo di senatore a vita. Oggi, per lui, è una giornata tumultuosa e nervosa dopo la trasmissione nella quale Rita Dalla Chiesa, figlia del generale assassinato a Palermo nel 1982, negli studi della trasmissione tv Tango su Raidue, ha nuovamente insinuato che dietro l’omicidio di suo padre possa esserci stata la mano di Giulio Andreotti. «Ho sempre pensato che sia stato un omicidio politico», ha detto Rita Dalla Chiesa, aggiungendo di essere certa che il padre «fu ucciso per fare un favore a un politico». Non è una novità, visto che anche Nando, fratello di Rita, ha sempre accusato il 7 volte presidente del Consiglio di avere ispirato l’uccisione di suo padre, in ragione dei suoi legami con ambienti mafiosi siciliani. Andreotti brandisce la pena tra le mani, il tradizionale e semplice pennarello trattopen e prima di rispondere vuole misurare le parole. L’intervista immaginaria il senatore a vita se bene cosa sia per averne concessa una al Corriere della Sera, in occasione del compleanno dei 102 anni che avrebbe celebrato se fosse stato vivo. Raccontò ad Oriana Fallaci che, dopo aver essere stato scartato alla visita medica, un maggiore dell’Esercito gli diede sei mesi di vita. <Meriterei certamente l’immortalità, disse a Daniele Berardi, per tutto quello che ho attraversato, ma non so se sia un bene o un male per uno come me>. L’intervista immaginaria Senatore Andreotti, al di là del rancore personale e famigliare nei suoi confronti, che senso ha, a distanza di 42 anni da un delitto, continuare a spargere veleno sulle istituzioni e sui loro servitori, peraltro non più in vita? Che giornalismo può essere quello di chi dà spazio a testimonianze del genere, utili solo a peggiorare ulteriormente il clima socio-culturale e politico-istituzionale? La più elegante risposta alle improvvide e becere insinuazioni di Rita Dalla Chiesa, il senatore intende darla con le parole del figlio Stefano Andreotti pronunciando le parole con la stessa calma che ha esibito nei momenti più difficili e drammatici della sua esistenza. «Accusarmi di un mio possibile coinvolgimento in un omicidio o di avere rapporti con la mafia è uno schiaffo alla memoria di Dalla Chiesa e alla sua storia». Ucronia Nella pila di libri che fa da cornice sulla sua scrivania c’è ne uno, molto recente, scritto da Emmanuele Carrere con un titolo che è tutta una ricognizione della storia: “Ucronia”. Ci sono storie che hanno come caratteristica specifica che non esistono, storie che non hanno avuto l’opportunità di esistere. “Ucronia” è atemporale ma essa induce a scegliere tra ciò che c’è e ciò che non esiste. Come sarebbe stata l’Italia senza Dalla Chiesa assassinato? Ma davvero Andreotti ha ordinato l’omicidio di Dalla Chiesa? È una realtà illusoria ma che, in questi momenti, per Giulio Andreotti diventa un’amara realtà. <Non so perché, dice il senatore Andreotti – ma non è una novità. Le accuse postume dei suoi figli sono cose basate sul nulla. E questo mi dà dolore perché vuol dire che non sono bastati i tanti anni trascorsi, né i processi ai quali è stato sottoposto, né le audizioni nelle quali ha spiegato più volte la verità dei fatti». Una querela? <Non l’ho mai fatta nella mia lunga vita politica. Tengo solo a precisare che tra me e Dalla Chiesa c’era una grandissima stima reciproca. Poi ho giurato davanti a Dio di essere totalmente estraneo a quei fatti delittuosi anche in punto di morte>. I processi di mafia? Giulio Andreotti, al termine della sua odissea processuale, furono prescritti i reati imputatigli prima del 1980 e assolto per quelli successivi a tale data. <Ma vorrei dire – prosegue Andreotti citando il filosofo Sant’Agostino – che la morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora. Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste>. E se i figli di Dalla Chiesa, dice ancora Andreotti, fossero meno ispidi e ruvidi nella memoria, pur rispettando il loro immenso dolore, il senatore continuerebbe con le parole di Sant’Agostino per giustificare anche la proverbiale ironia praticata nella sua esistenza. Direbbe a chi vuole ricordarlo con affetto e stima, pur sapendo che ora si parla di una ingiustizia che lo colpisce per una vittima eccellente dell’Italia repubblicana. <Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme. Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza. Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo. Il tuo sorriso è la mia pace>. All’uomo di governo, il rappresentante aggiunto e permanente del Vaticano, il custode degli equilibri della Guerra Fredda, non fa difetto la memoria e risponde alle insinuazioni recitando le parole nette di sant’Agostino. Il rapporto strettissimo con la Santa Sede – che Andreotti ha sempre intrattenuto, dai tempi dell’università fino alla vecchiaia – rimane una delle lenti principali attraverso cui leggere la sua vicenda politica e, insieme, anche un pezzo fondamentale della recente storia italiana. Francesco Cossiga lo definiva “il segretario di Stato permanente del Vaticano“. Le parole per una recensione Andreotti ha mostrato un’Italia non provinciale, in grado di guardare al mondo e non soltanto al suo interno, ha conosciuto le luci del successo, ma anche la polvere delle aule dei tribunali e delle accuse più infamanti. E il tentativo di incasellare sulla ricostruzione penale l’esperienza di Andreotti e della Dc si è rilevato una forzatura, così come convennero l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e l’ultranovantenne Giuseppe Alessi storico fondatore e conoscitore della storia della Dc siciliana all’indomani della richiesta di autorizzazione a procedere chiesta per mafia alla procura di Palermo. Sulla pila di libri della scrivania del senatore c’è in bella vista il saggio che uno storico come Augusto D’Angelo ha dedicato ad “Andreotti, la Chiesa e la “Solidarietà Nazionale”. Il presidente è pronto per la recensione ma legge la frase che nel 1979 pronunciò l’allora arcivescovo di Bari monsignor Mariano Magrassi. L’incontro sta per finire e Andreotti utilizza le parole, in esergo al libro da recensire. <Ma è inutile perdere tempo in rimpianti. Siamo solo davanti ad un ennesimo esempio che mostra come la Storia più disattesa. La Storia poco conosciuta e conosciuta male>. E’ ora di pranzo, si esce dall’ufficio di senatore a vita e, casualmente Giulio Andreotti incrocia il senatore Emanuele Macaluso, polemista nel Pci, mai banale e mai corrivo. <Giulio è stato di nuovo accusato e mascariato. La verità che il trasformismo giudiziario non è diverso da quello politico. Si ricorda la sentenza all’italiana di Palermo? Tutti l’hanno letta e applaudito sia chi l’ha vista come una condanna sia che l’ha vista come un’assoluzione. Ora per lui si apre il fronte del familismo della memoria che non sempre rispetta, per pietà, prima di tutti i suoi cari perduti>. Giulio Andreotti e Emanuele Macaluso si salutano con un abbraccio nell’Italia della memoria a puntate.

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