Di Vito Pinto
Circa duecento Dadi, o Kybos greci, della collezione infinita di Antonio Baglivo sono stati allineati su piccole, appropriate mensole del “Civico 23”, uno spazio espositivo dell’omonima associazione che si apre a quanti rifuggono dai clamori di gallerie ove tutto è ben costruito sugli itinerari dell’economia cui si accompagna l’arte. Al “Civico 23” l’atmosfera che si respira è diversa, profuma degli stessi effluvi “sovversivi” di schemi preordinati che empivano l’aria del “Laboratorio Dadodue”, “cellula creativa e propositiva” inventata da Antonio Baglivo in quel lontano anno 1977 in Via XX Settembre di Salerno. E risale al 1991 la prima mostra di dadi d’artista che Baglivo organizzò in quei piccoli ma garbati spazi dove il suo laboratorio si faceva di volta in volta punto di riferimento di artisti della “periferia” artistica non contemplata nella nomenclatura delle gallerie d’arte. Era iniziato un cammino particolare e, se vogliamo, speciale in cui l’artista si confrontava con un oggetto minimale, ma stimolante per una mente creativa, fosse essa di costruttori d’arte, di autori di pensiero, di osservatori di immagini. Quei dadi, piccoli cubi, sono ritornati nel 2005 in esposizione, una raccolta “arricchita e ancor più qualificata – scriveva Baglivo in catalogo – dalla partecipazione di tanti nuovi artisti, poeti e intellettuali che con entusiasmo hanno risposto all’invito” E allora, come oggi che in esposizione vi sono circa duecento oggetti, risulta valido quanto Baglivo pensava quasi a voce alta: “Una mostra fuori dagli schemi convenzionali, quindi, che si è formata nel tempo in modo quasi spontaneo: al primo dado se ne sono aggiunti altri come per proliferazione naturale, è bastato parlarne con qualche amico per attivare quel virtuoso meccanismo ci circuitazione che senza particolari sforzi organizzativi ci ha consentito questo straordinario risultato.” Una collezione, quindi, che appare come un “cantiere sempre aperto” dove confluiscono idee, fantasie, sogni che ogni artista o intellettuale di varie arti racchiuse in quelle sei facce quadrate, uguali, trasformandole in infinito spazio del segno e del pensiero. A guardare la sequenza di questi piccoli oggetti, ben ordinati e tutti identificabili per artista, sembra trovarsi di fronte ad una narrazione singola e nel contempo corale. Scalfiti, segnati, tagliati, colorati, mascherati, svelati, costruiti, smontati, bruciati composti di vari materiali, i dadi mostrano di essere soprattutto parlanti. Si capisce, così, ciò che scriveva su di loro il compianto Gerardo Pedicini, poeta di rara sensibilità: «L’artista è stato come sedotto dalla “solida” geometria della forma e ce ne partecipa l’idea. Gioco senza fine, dunque, che i segni rimandano ad un desiderio sempre disponibile di sedurre ed essere sedotto». La seduzione della forma, la seduzione del gioco per quei dadi punteggiati: la cifra delle facce opposte, sommate, danno sempre sette. Un numero magico sin dall’antichità: Roma fondata su sette colli, sette i suoi re, sette sono i vizi capitali e sette sono i sacramenti della religione cattolica, così come sette sono i mari del nostro pianeta. Un gioco antico, quello dei dadi: ne parlano nelle loro opere i greci Euclide, Protagora, Pitagora e i romani Ovidio, Aulio Gello, Varrone, per non dimenticare padre Dante che nel Purgatorio ricorda: “Quando si parte il gioco de la zara (dall’arabo zarh – dado), / colui che perde si riman dolente”. E non ultimo Giovanni, discepolo prediletto, nel suo racconto evangelico ricorda che i soldati romani sotto la croce di Cristo “si giocarono la sua tunica ai dadi”. La croce, da sempre segno di contraddizione, il dado aperto, disteso in piano ha l’impianto basilicale a croce latina. Forse non a caso nel 1918 Tristan Tzara indicò il dado come “simbolo di rivolta e di negazione”. Forse sono tutti questi significati, noti e meno noti, che affascinano l’artista a confrontarsi con quelle sei facce per dare sfogo ad una personale suggestione, lanciare un messaggio più o meno occulto, lasciarsi soggiogare da una sfida d’arte su una superficie minimale che può offrirgli, però, un diverso sviluppo del segno. Allea iacta est! In un pieghevole lasciato ai visitatori della mostra al “Civico 23”, Angelo D’Amato scrive: «Il Dado è un microcosmo in sé chiuso ma, nello stesso tempo, aperto alle molteplici sollecitazioni dell’imprevedibile». Ciò impone all’artista, o realizzatore dell’oggetto, un freno all’istinto estetico a beneficio di un ragionamento sull’organizzazione delle superfici, incastrate in un’assenza di soluzioni in continuità ed in una continuità assente di soluzioni globali. Ecco il mistero che intriga, che sollecita l’artista, che lo soggioga, lo sfida in una impresa d’arte. Pensata, questa collezione, da Baglivo in epoca lontana per tempi e spazio rispecchia, in fondo, quel suo spirito in libere sequenze d’arte in continua evoluzione: ed è l’ansia della ricerca, del nuovo, del non già visto. Scrive D’Amato: «Credo che all’origine del progetto ideato dal maestro Antonio Baglivo, ci fosse l’idea di tentare un’impresa volta alla conciliazione, anche se precaria, tra una forma strutturalmente stabile come quella di un dado e l’azione creativa, stilistica dell’artista». Certamente sono stati diversi gli spunti che hanno affascinato Baglivo, e di sicuro sono state tante altre ancora le sfide di fronte alle quali si sono trovati gli artisti in presenza di un cubo o kibos che dir si voglia, per esprimere un proprio sentire bello, alto da ricondurre in quadrati microspazi che si rincorrono in un infinito girare. Così l’antica vocazione dell’oggetto di gioco nella collezione Baglivo si interseca con il farsi esperienza d’arte, da provare e tacere nel proprio intimo, come un qualcosa di sacro, divino, ordinato, come l’ordinaria armonia dell’universo per cui Albert Einstein ebbe a dire: «sono convinto che Dio non giochi a dadi».