Atteso successo per il capolavoro verdiano firmato da Pier Giorgio Morandi e Massimo Gasparon. Emozione per il teatro Verdi tutto esaurito che torna a rivivere. Plauso convinto per l’intero cast
di Olga Chieffi
“Non bisogna esagerare – scriveva Verdi – nella smania di voler ogni cosa perfetta, perché si corre il pericolo di compiere ben poco, o di non compier nulla”. La Traviata rappresentata mercoledì sera nel nostro massimo, con molta cura e sfarzo, ci ha procurato una ricaduta del nostro inguaribile male: le pagine di quest’opera non ingialliscono mai e più forte penetra in noi e affonda il loro profumo nella memoria. Quando la stagione teatrale è nel suo pieno sviluppo, il critico è come il somarello che, sotto la frusta trotta col suo taccuino da uno spettacolo all’altro, industriandosi di comporre una frase, di definire un ricordo, di masticare una recensione. Ma durante un’opera come La Traviata, non resta più altro da fare che scrivere qualche battuta, poiché è la musica di Verdi che il pubblico va comunque ad applaudire, comunque sia essa eseguita. Se il preludio al I atto non ha fatto altro che confermare la felice intuizione del M° Antonio Florio che la Traviata non è altro che il blues di Violetta (sua una trascrizione delle prime pagine della partitura in stile crossover), il soprano Nino Machaidze e il regista hanno saputo schizzare questo mood, sin dal levarsi del sipario. Il soprano possiede un fascinoso registro medio-grave e degli splendidi filati sul registro acuto, che l’hanno posta tra le grandissime, nel secondo e nel terzo atto, come in tutti i momenti lirici, della rappresentazione, convincente ed emozionante in ogni duetto e concertato che in Verdi vantano una difficile intensità d’espressione drammatica, come anche per il finale, reso soddisfacentemente, in particolare vocalmente, così come per l’aria e cavatina “Follie, Follie” e “Sempre libera degg’io”, per i perfetti passaggi al registro acuto, con esecuzione fedele all’originale e giusta intonazione, scavo interpretativo per il secondo atto con quel “Dite alla giovane” cantato a fil di voce, ma non certo diafano e trascolorato, caro alle più rifinite Violette, per chiudere con l’ultimo atto e l’ Addio del passato, l’addio alla vita, in cui l’oboe, preso forse dall’emozione della prima, non ha sottolineato certe finezze estetiche del canto, svolgendo un compito non più che scolastico. La Traviata ha vissuto il suo momento più alto certamente nel secondo atto, in cui ha troneggiato su tutto e tutti il Giorgio Germont a cui ha dato voce un fascinoso Massimo Cavalletti, il quale ha offerto il giusto tono al perfetto esempio di espressività melodica e vocale che è il dialogo tra Violetta e Germont, giocato sul saper muovere una sola voce, una linea melodica in modo assoluto, pur con una originalissima libertà di andamenti melodici con cui le voci, sempre tanto lontane dalla rigidità d’una forma chiusa, quanto dall’aridità d’un recitativo tradizionale, si spiegano docilmente ad esprimere i più opposti ed instabili atteggiamenti dell’animo. Interessante l’idea coreografica, di Luigi Ferrone , il quale ha lasciato la Anbeta Toromani in un lunare solo sul coro delle Zingarelle, mentre tradizione rispettata per i Toreador con Alessandro Macario primo ballerino. Alfredo, un ritrovato Antonio Poli, ha ben lavorato il fraseggio, sottolineando le sfumature, gli accenti del dialogo, la coloritura delle ombre, tristemente presaghe nelle dolorose riflessioni cromatiche sin dall’inizio. Compito ben eseguito dalle altre voci a cominciare da Sofia Koberidze, che ha dato corpo a Flora Bervoix, il Gastone, Francesco Pittari, il barone Douphol e un commissionario, Angelo Nardinocchi, Annina, Miriam Artiaco, il marchese d’Obigny, Maurizio Bove, il dottor Grenville Carlo Striuli, Giuseppe, Salvatore De Crescenzo, Interessante l’idea coreografica, di Luigi Ferrone , il quale ha lasciato la Anbeta Toromani in un lunare solo sul coro delle Zingarelle, mentre tradizione rispettata per i Toreador con Alessandro Macario primo ballerino. L’Orchestra Filarmonica Salernitana “G.Verdi”, guidata da Pier Giorgio Morandi ha sostenuto bene i cantanti, anche se siamo abituati a qualche accentazione maggiore del contrasto, dei colori. Merito di Morandi è stato quello di non confondere armonia con accompagnamento: armonia e melodia sono divisioni scolastiche e fittizie, impossibili a scindere nell’assieme dell’opera d’arte. Infatti, la novità e l’originalità della melodia verdiana risiedono massimamente negli intervalli ch’essa percorre, si tratta cioè di un’armonia orizzontale invece che verticale, ma ragguardevole ed espressiva quanto ogni altra. L’orchestra ha ben esaltato il crescere dell’agitazione, la falsa quiete, la tristezza e il subitaneo erompere della passione, con intensità e movimento di suono. Ottimo esordio alla direzione del coro di Armando Tasso, come anche di Giuseppe Ler alla testa della banda di palcoscenico. Piacevoli all’occhio le scenografie di Alfredo Troisi e la regia, di Massimo Gasparon, i quali ben giocando con la luce, elemento prezioso, che vuol essere propinata avaramente come un filtro, hanno schizzato un quadro ottocentesco, dal sapore antico, attraverso mezzi moderni, in cui i personaggi, hanno compiuto il loro viaggio, tra i riflessi di gelatina sugli abiti di seta cangiante. Il teatro gremito, che ama da sempre perdersi in queste evasioni da bel mondo, dandosi arie da piccola nobiltà, rumoroso e ineducato sempre con cellulari squillanti, addirittura la carica di cavalleria, tra le mani, ha scrosciato sonoramente di applausi. Quest’opera famosa non conosce stanchezza: è in piedi tutt’ora, anzi non tocca terra e resiste e vince anche a quella mite e indulgente ironia che circonda le cose vecchie, e che è la peggiore e la più irrimediabile, poiché vien fatta da chi ama e resta fedele.