Venere degli stracci: più che opera d’arte è l’oggetto di una furba operazione commerciale - Le Cronache
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Venere degli stracci: più che opera d’arte è l’oggetto di una furba operazione commerciale

Venere degli stracci: più che opera d’arte è l’oggetto di una furba operazione commerciale

di Alberto Cuomo
Quasi sia stata un’opera di Fidia, a proposito della “Venere degli stracci”, incendiata da un povero clochard, il suo autore, l’artista milionario Michelangelo Pistoletto ha chiosato: “La mia Venere è stata data alle fiamme. È un gesto che spaventa perché il rogo di un’opera d’arte racconta di una società stracciona che purtroppo ha preso il sopravvento”. A fine giugno, quasi offendendo i napoletani, aveva confidato a “Elle” una sofisticata rivista femminile di alta moda, che con la sua installazione voleva mostrare “come anche in una città come Napoli due elementi come bellezza e miserabilità dell’esistente possano essere, attraverso quest’opera, stimolo di connessione e rigenerazione…La Venere che viene dalla storia della bellezza rigenera questi stracci, che di colpo diventano opera d’arte e ritornano a vivere”. C’è da dire, subito, che la Venere di Pistoletto più che opera d’arte è l’oggetto di una furba operazione commerciale. Infatti l’opera risale al 1967 ispirata alla Venere con mela dello scultore neoclassico danese Bertel Thorvaldsen e replicata più volte, per motivi commerciali appunto, tanto da essere presente alla Fondazione Pistoletto di Biella, con copie vendute al Museo d’arte contemporanea Donnaregina di Napoli, al Museo d’arte contemporanea del castello di Rivoli, alla Tate Gallery di Liverpool e ad altre esposizioni. Quella installata in piazza Municipio è costata 200mila euro, in un prezzo eccessivo per la materia prima, la resina usata e gli stracci, il cui plusvalore deriva dal riconoscere, falsamente, sia un’opera d’arte. Da tempo, almeno dal 1935, dal noto saggio su “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin, sappiamo che l’arte ha perduto la sua “aura”, il suo tradizionale valore cultuale, per divenire, con la riproduzione, da un lato accessibile alla fruizione collettiva, e, dall’altro, proprio nella fruizione di massa, strumento della politica. Beniamin faceva l’esempio del cinema per rilevare l’azione di propaganda dei prodotti d’arte, affermando che la politica, quella di Hitler, con le grandi parate e l’uso di dispositivi artistici, si fosse estetizzata, cui doveva contrapporsi un’arte politicizzata, laddove, avendo perduto il suo valore cultuale, religioso, era divenuta culto per se stessa, arte per l’arte, con tutti i riti tradizionali, le processioni dei cultori nei musei e nelle gallerie che ne determinavano i falsi valori. Fu pertanto in un’epoca di forte attività politica, alla metà degli anni sessanta, che l’arte operò una scelta di campo verso una visione alternativa della società. Quindi gli artisti, che Germano Celant riunì sotto l’etichetta “Arte povera”, rifiutarono in primis le tecniche e gli strumenti tradizionali dell’arte privilegiando le installazioni che interagissero, anche polemicamente, con i contesti, nell’uso di materiali poveri, terra, legno, ferro, stracci onde, nelle parole di Celant, “impoverire i segni per ridurli ai loro archetipi”. I segni, quelli anche dell’arte, tanto più nell’arte tradizionale, necessitano di un veicolo materiale, la tela le paste colorate etc. ma, se appariva provocatorio esporre nel luogo sacralizzato della galleria, materiali deprivati dei segni, ad esempio un cumulo di terra o di gesso, rotoli di cordame, e, nella provocazione, non solo la contestazione al sistema dell’arte, quanto allo stesso sistema sociale che ne riconosceva i valori, esporre solo i materiali privi di ogni denotazione rendendoli al mercato finiva con l’essere un modo di mercificare la stessa contestazione. Del resto per rendere palese il loro rifiuto politico del sistema dei valori borghesi molti di essi si esposero anche su terreni tipicamente politici, così come accadde proprio a Pistoletto con un’opera sul Vietnam, e tuttavia oggi vendere ed esporre repliche, secondo la richiesta del mercato, come è accaduto per la Venere degli stracci, non ha alcun significato contestativo ed anzi quello di una totale omologazione dell’arte, avendola ridotta a produzione di gadget per turisti accaldati e forse, nel loro girare inebetiti per le città, affetti da una particolare forma della sindrome di Stendhal. L’uomo che avrebbe incendiato la Venere di Pistoletto è Simone Isaia, fermato nel centro di accoglienza di via Marina e ora in custodia cautelare in carcere, non agli arresti domiciliari, dal momento vive senza casa in strada. L’azione di Isaia non è paragonabile a quella degli ambientalisti che imbrattano i monumenti e le fontane storiche, perché mentre i loro interventi oltraggiano opere storiche eiconosciute che costituiscono un unicum, distruggere una replica facilmente ripetibile è solo un atto dimostrativo. Simone è un giovane di 32 anni contro cui si sono associati tutti, esponenti del mondo politico e culturale. Un ambaradan probabilmente allestito ad arte al fine di valorizzare tutte le copie, non solo della Venere, di opere di proprietà di musei, istituzioni e privati. Il sindaco Manfredi ha sostenuto che l’opera, a conferma del suo essere mera riproduzione, sarà rifatta e rimessa in sito. È partita quindi la raccolta di altri 200mila euro, non si sa bene per cosa, dal momento gli stracci saranno regalati e la resina da utilizzare con il calco, di proprietà di Pistoletto, non costa molto. Sarebbe forse piuttosto opportuno devolvere i 200mila euro per in centro di accoglienza di via Marina, che a stento racimola i pasti per i tanti poveri che vi accorrono, e, se proprio si vuole mettere un nuovo monumento a Napoli sarebbe giusto celebrare Simone Isaia nell’atto di appiccare il fuoco, come un Pietro Micca che ha fatto deflagrare la finzione dell’arte attuale.