La Pasqua fra ebraismo e cristianesimo - Le Cronache
Editoriale

La Pasqua fra ebraismo e cristianesimo

La Pasqua fra ebraismo e cristianesimo

Di Federico Sanguineti

Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi, come dice il proverbio. In effetti, l’ebreo Gesù, fondatore, suo malgrado, del cristianesimo, non trascorre la Pasqua in famiglia, ma celebrando una cena fra amici. Lo imita il cristiano Dante, andando in giro, anche lui suo malgrado, lungi da moglie e figli, per Inferno, Purgatorio e Paradiso. Non tutti però sono Gesù o Dante, se nel Bel paese, pieno di pagano familismo ipocrita, «il giorno di Pasqua, dopo tutto, fa piacere di trovarsi in famiglia». Sono parole, queste ultime, che in Roveto ardente (1905), romanzo di Clarice Tartufari, l’onorevole Montefalco rivolge alla protagonista Flora, regalandole, invece delle «mille lire» di cui avrebbe bisogno, un «agnellino di zucchero», il quale (ironia della sorte!) «cadendo sul pavimento, si ruppe in tanti frantumi». Che Pasqua sia festa che accomuna ebrei e cristiani ‒ di liberazione per gli uni, di resurrezione per gli altri ‒, lo sa, meglio di chiunque, la stessa Tartufari, quando in Il mare e la vela(1922) non solo descrive la processione del Venerdì Santo a Bagnoregio (nel capitolo primo della seconda parte), ma evoca (fin dal capitolo terzo della prima parte) «il recitativo che, nella festa della Pasqua ebraica», un «bisnonno cantilenava, alla fine della cena, con voce gutturale, piegandosi avanti e indietro». Si notino le analogie con Alla fiera dell’est (1976) di Angelo Branduardi e, soprattutto, con Had Gadya (1989) della cantante filo-palestinese ebrea Chava Alberstein: «Chad-Gadyà! Chad-Gadyà. Tutto finisce! Un solo capretto della capra, un solo capretto, che mio padre comprò per due zuzim. E un gatto divorò il capretto; un cane morse il gatto; un bastone percosse il cane; un fuoco bruciò il bastone; un’acqua estinse il fuoco; un bue bevve l’acqua; lo scannatore scannò il bue; l’angiolo della morte uccise lo scannatore, e il santo Uno, sia benedetto, venne e uccise l’angiolo della morte. Tutto finisce!». Il romanzo è ricordato in ogni libro il cui oggetto è l’ebraismo nella letteratura d’Italia: Ebrei nella letteratura (1979) di Giorgio Romano; La terra ritrovata. Ebreo e nazione nel romanzo italiano del Novecento (2012) di Vincenzo Pinto; La misura dell’inatteso. Ebraismo e cultura italiana (1815-1988) (2022) di Alberto Cavaglion. Ma solo Luciana Vergaro, autrice dell’indispensabile monografia intitolata Clarice Tartufari. Una scrittrice dimenticata (Napoli, Juppiter, 2021), è a conoscenza (pp. 18-19) che su «Il Vessillo Israelitico», anno LXX (5-31 gennaio 1922), si trova la lettera al Direttore delle scuole ebraiche di Livorno, Professor Lattes, in cui Tartufari scrive (evocando la propria infanzia, quando conobbe Attilio, ragazzo ebreo, nipote di Alessandro D’Ancona): «Ed oggi voglio, quasi sciogliendo un voto, dar vita con la mia arte ad alcune figure ebraiche, facendole protagoniste del mio prossimo romanzo in preparazione; studiare, per quanto la mia perspicacia lo consente, alcune anime ebraiche di questo agitato periodo, prospettare i vari atteggiamenti spirituali di fronte ai cristiani, indurre i miei fedeli lettori a meditare sulla sorte di circa 15 milioni di creature umane». Più avanti: «Non intendo peraltro fare opera di polemica o propaganda; intendo scrivere un romanzo, possibilmente letto ed allacciante nel quale cristiani ed ebrei si considerino non con cuore nemico, bensì ciascuno restando al proprio posto, ciascuno legato nelle tradizioni della propria fede». Qui finalmente non resta che misurare quanta distanza, l’anno stesso della marcia su Roma, con preveggente anticipo, Tartufari assuma nei confronti del fascismo.