Gli archi dei Solisti Veneti dal Barocco al Novecento - Le Cronache
Spettacolo e Cultura Musica

Gli archi dei Solisti Veneti dal Barocco al Novecento

Gli archi dei Solisti Veneti dal Barocco al Novecento

di Olga Chieffi

Secondo appuntamento, stasera, con il cartellone della rassegna “Benedetta Prima…Vera!”, allestito dalla direzione artistica del Teatro Verdi di Salerno. Dopo il bagno di folla occorso, lo scorso sabato, a Daniel Oren e alla Filarmonica Salernitana “Giuseppe Verdi”, oggi saranno ospiti, nella Chiesa di San Giorgio, alle ore 20, I Solisti Veneti, diretti da Giuliano Carella. La serata principierà con la Sonata a quattro in sol maggiore per archi di Giuseppe Tartini. L’ideale del genio di Piran è un ideale di tipo vocale e cantabile, che modella le inflessioni della melodia sulla ricerca di un senso espressivo affine al discorso verbale, con passaggi che paiono esprimere una riflessione interiore e si arricchiscono con ornamentazioni improvvisate che guardano alla grande arte del belcanto. Idee melodiche e ritmiche quelle di Tartini, organizzate in temi veri e propri, alcune frasi di passaggio all’interno dei singoli movimenti, (un Presto, l’Andante e l’Allegro assai finale), o l’accordo “vuoto”, o ancora il contenuto sentimentale ed emotivo della composizione che guarda all’estetica naturalistica tardo settecentesca con una tensione espressiva che anticipa il romanticismo, soprattutto nel tempo lento, nella loro inconfondibile individualità, fanno riconoscere senza possibile fraintendimento, fin dalle prime battute la sonata tartiniana. Balzo di due secoli con l’esecuzione della terza Suite per Archi delle “Antiche danze ed arie per liuto” di Ottorino Respighi op.172. L’operazione che Respighi attua sulla musica antica è un atto d’amore. Di certo la delicatezza con cui la filologia moderna maneggia l’antico mostra il lato violento di questo atto, ma negli anni ’30, così permeati dalla ricerca del nuovo, dall’abbandono del lirismo melodrammatico, così informati dal mirabolante moderno, il recupero dell’antico è anche un atto di coraggio che può essere svolto solo da chi è già in grado di prevedere i limiti dell’affanno per il nuovo. Respighi apre il suo interesse verso il barocco europeo, conferendo vita a contenuti musicali che non è contemplazione del manoscritto, ma, piuttosto, coscienza che la musica prende vita fintantoché viene suonata, e l’orchestra, ente massimo strumentale, ha questo dovere grazie alla facilità che ha di rendere tutto colorito e autorevole con i suoi diversi timbri. La terza Suite, comprende l’Italiana, una garbata e composta melodia di anonimo, le Arie di corte, ovvero un florilegio di canzoni francesi, aperto e chiuso dallo stesso brano e con un riflessivo “Lento” in posizione centrale, seguito da una Siciliana, anch’essa anonima, dal carattere pastorale, e a chiudere, la Passacaglia di Ludovico Roncalli, un tema maestoso e caratteristico arricchito da severe variazioni. Le opere di Giuseppe Verdi conquistarono il pubblico e i virtuosi di ogni strumento con la modernità della loro concezione drammaturgica e della resa dei personaggi, dai quali il canto sgorga da un’urgenza espressiva e attraverso una vocalità essenziale affatto nuova per gli spettatori dell’epoca. Entrerà, quindi in scena il violinista Lucio Degani, per dedicare al pubblico salernitano la Fantasia su La Traviata, op. 50, composta da Antonio Bazzini, apprezzata dal pubblico sin dal 1862. In questa parafrasi Bazzini raccoglie sul proprio strumento le confessioni intime di Violetta Valéry: qui, infatti, tutti i motivi musicali la riguardano, compreso quello orchestrale, particolarmente larmoyant, che, nella scena VI dell’atto II, la incalza mentre tenta invano di scrivere la sua lettera di commiato ad Alfredo Germont. Motivo che, nelle mani di Bazzini, diventa ricorrente: dopo essere apparso sovrapposto alle inconfondibili note iniziali dell’atto III, esso riemerge, ancora più sconsolato, nel breve raccordo tra il flashback rappresentato dal Preludio dell’atto I e un’improvvisa, chimerica accensione, prima che Violetta dia sfogo alla propria disperazione con l’enunciazione di “Alfredo, Alfredo, di questo core”. Dopo averci fatto sentire l’ “Addio del passato”, nella conclusiva perorazione di “Amami, Alfredo”, il canto di Violetta si sdoppia sul violino in una sorta di estremo e appassionato abbraccio con l’amato. Finale ancora verdiano con l’esecuzione del Quartetto in Mi Minore, in versione orchestrale. L’opera venne composto da Verdi a Napoli nel marzo 1873, durante una forzata pausa causata dal rinvio di una nuova produzione di Aida. Un quartetto d’archi probabilmente per dimostrare che un compositore d’opera non era affatto un compositore di serie b e che anche lui fosse in grado di creare un quartetto nel rispetto delle regole accademiche, con un utilizzo preciso, quasi virtuosistico, del contrappunto e con lo sberleffo di una fuga a concludere il quarto e ultimo movimento, quasi un presagio di quella che, qualche anno più tardi, avrebbe chiuso il Falstaff. “Se il quartetto sia bello o brutto non so… so però che è un quartetto!”.