Rino Mele
Tirare le parole verso il basso, aspra scarpata, forra,
un canale scosceso, strada ferrata
e lì, in quello sterro, luogo bruciato, inferno, alzare
i pali, stendere una tenda, due stracci
colorati, un sipario sulla scena vuota. Cacciarvi
all’improvviso uno spot, un proiettore,
mascherato sole senza luce
che faccia di quel quadrato un lago. Ecco, una donna
avanza, discinta, sbranata, succhiata
di baci, poi un uomo dalla barba bianca, ucciso,
scannato, che guarda con disperazione
calma uno spento televisore. Manca soltanto Edipo,
nascosto tra due sedie, a spiare
lo spettacolo, la croce di strade, i bastoni
alzati, la sfinge, aperte
l’ali, che defeca la sua allegria.
Per Sanguineti la poesia è la strada di gesso
sulla lavagna, la gloria sepolta
di un’alluvione e su quelle macerie un bar
che all’occasione offre i suoi Martini a uno
sconosciuto avventore. Finge
una poesia dislessica, strabica, sottrae
alla visione l’orrore, mette baffi di rossetto
a un teschio e di una storta tibia
fa dritti binari, una vuota stazione che i treni
dell’infanzia dipinge.
Cerca parole quotidiane di conversazione, e ad esse
sottrae l’ambizione dell’enfasi
ma dona quell’altra -di enfasi- la ripetizione
(che rassicura, difende, nasconde e mostra
al piede la pietra dove potrebbe inciampare, il gradino
rotto per sprofondare). Per Sanguineti,
il poeta è un goffo attore
vestito da fotografo, un acrobata bendato,
deve chiudere in un riquadro il suo niente vedere
e accecarsi sorridendo, tagliare
la carta da stampare con forbici dolci fino a -ma così
piano- ferirsi, e di quel dolore dire, con una bugiarda
litote, che non fa male. Le sue poesie
come le fotografie si escludono dal totale
delle cose, eppure -sorridendo,
con gli occhi lunghi incisi da un temperino- danno del
mondo l’ultima interpretazione, l’omologano
al nulla, ci tracciano sopra
un exergo, un’epigrafe, la scritta fuori del testo
che il testo contiene. Questa figura
della fotografia è l’approssimazione precisa,
l’imprecisione di una fredda ombra
quando la notte è fonda e graffia l’alba.
C’è come un prato, una riva (o riviera) con canne. Non
è una visione, ma solo un doloroso
venir fuori dell’immagine. Nel fotogramma gli uccelli
d’acqua alzano l’ansia. Un sottile
legame, un nodo, quel passare dello sguardo
che dice quanto siamo vicini e apparteniamo alla riva,
alla riviera. L’inquadratura
è ristretta, si vede, e si indovina, poco e male. Chi è
questo poeta legato dalle corde
della sineddoche (come un Ecceomo) invaso
dalle frecce della contiguità (un Sansebastiano) tagliato
a piccoli pezzi, da poterci giocare
i giochi più funesti (come un quaderno
a quadretti)? Chi è
questo poeta che mette in fila le parole come soldati
d’aria, li spinge a scivolare uno dopo
l’altro (lumachino, limone, luna, lacca, lingua, lapis,
legato, lampeggiante) chi è
questo poeta che scrive come facesse un film,
un montaggio estremo, fino a morirne? Non ci sono
nei suoi versi metafore se non smorzate, levigate,
numerate, ordinate secondo l’emozione
di un paragone cancellato. Scrive
i suoi dialoghi silenziosi e fa da cerimoniere
a se stesso, incontra le parole
e il deserto. Cos’è per lui la poesia
se non l’ossessiva mania di far somigliare il mondo
a quelle parole, metterle in corrispondenza,
cane a “cane”, annegato ad “annegare”. Fino a tornare
carponi, lui e la sfinge,
a cavarsi a vicenda il riso e lo sguardo, decisi
a non sapere che sull’alto letto Giocasta
e Laio stanno nella bianca tenebra aspettando
(Scrissi “Accecarsi” per i settant’anni di Edoardo Sanguineti e li lessi nel suo augurale incontro con l’Università di Salerno il 6 dicembre 2000. Fu pubblicato in AA.VV., “Per Edoardo Sanguineti: good luck (and look)”, a cura di Pietropaoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002. Infine, approdò in uno dei miei libri di poesia più intensi, “I dolorosi discorsi”, Sottotraccia 2003)