Orazio Corrado il caposquadra, lo scettro del comando
“Sono stato in tipografia dove ho imparato il mestiere che ho fatto una volta uscito quale linotipista e l’ho svolto fino a raggiungere la pensione. Sono stato fortunato avendo avuto l’onore e il piacere, negli anni ottanta di collaborare con il commendatore Menna, alla stesura del suo libro “Un’ istituzione allo specchio”
Di Orazio Corrado
Era una giornata d’ inverno del 1953, gennaio faceva freddo tirava un vento gelido mio padre mi mandò dal nonno che abitava vicino a noi a prendere il cappotto. Ricordo ancora oggi la resistenza del nonno a non volermelo cedere, perché a suo dire non era giorno indicato per uscire di casa. Nonno finalmente si convinse, benché di malavoglia. Poco dopo il mio ritorno, mio padre usci con la lambretta insieme ad un suo amico per andare vendere maialini nel Cilento, cosa che faceva spesso per guadagnare dei soldi per la famiglia. In quella spedizione ebbe un incidente e trasportato in ospedale al via Vernieri, dopo una settimana di coma morì. A seguito di questa disgrazia, attraverso l’intercessione di un caro amico di famiglia, mia madre mi portò in collegio. Eravamo tre fratelli, Nunzio, il primo di sei anni è mezzo, fu affidato alle suore ad Angri, io di quattro anni è mezzo fui destinato all’ Orfanotrofio Umberto I, e l’ultimo Cosimo di 2 anni è mezzo rimase a casa con la mamma. Dopo tre anni anche Nunzio venne al Serraglio, così potemmo ritornare a stare insieme, a farci compagnia. Il primo impatto fu molto triste, la morte di mio padre, l’allontanamento dalla famiglia, unitamente alle sofferenze di mia madre, la quale veniva a trovarmi ogni due settimane, poichè alternavasi nelle visite con Nunzio che era ad Angri, che aveva dovuto nel bisogno optare per questa scelta drastica, mi spezzava il cuore. Fui assegnato alla quarta camerata, e dopo due anni passai alla sesta camerata, dove ho sempre fatto il caposquadra, che all’orfanotrofio era segno di comando. Il maledetto giorno dell’alluvione che colpì nel 1954 la città di Salerno, il quartiere di canalone fu drammaticamente colpito e l’istituto era proprio in quella zona. Nella cosiddetta “malanotte” dormivamo nella sala concerto che era sottostante alla sesta camerata, in ristrutturazione, in sei ragazzini in due letti attaccati tre a testa e tre a piedi, e oggi ancora sorrido di questo ricordo. Una sera eravamo tutti a letto e di turno c’era l’istitutore ragionier Angelo Birra era solito scherzare per tenerci in allegria correndo sopra i letti e calpestò la gamba del mio amico Alfonso De Simone, che sfortunatamente si fratturò, il dolore e lo spavento presero il sopravvento ma tutto si sistemò con l’arrivo del mitico Infermiere che gli prestò le prime cure, prima del fatidico gesso. Quando non si andava a scuola le mattinate le trascorrevamo in camerata dove venivamo tenuti in riga e nei ranghi tutti in fila e sugli attenti per diverse ore in modo da farci stare tranquilli e impossibilitati a far danni. Ero piccolo e ricordo che ogni volta Angelo D’Adamo mi chiedeva continuamente il mio nome ed io ogni volta lo ripetevo gridando Corrado Orazio. A lui faceva sorridere, ma non con cattiveria, la mia voce sottile che aumentava di volume e d’altezza quando gridavo il mio nome. Anche alle scuole elementari ero capo squadra ed un giorno in qualità del mio ruolo mi recai dal rettore Ricciardi per fargli firmare una richiesta di prelevamento di divise interne (giubbini e pantaloni) per poi recarmi in sartoria guardaroba a ritirarle dove c’erano le suore a gestirle con la ricevuta firmata dal Rettore. Il suo ufficio era situato sulla sinistra dopo aver salito le scale dove portavamo al campo sportivo, prima di entrare educatamente bussai alla porta, entrato mostrai la richiesta e la ricevuta da far firmare che prontamente esaudì, poi mi chiese il mio nome e mi scelse e mi incluse nella lista degli alunni che sarebbero andati a Roma a trovare il presidente commendatore Alfonso Menna insieme ad altri allievi. Alfonso Menna era a Roma in convalescenza da un brutto incidente presso i famigliari, l’anno mi pare fosse il 1956 tempo di elezioni: avevo una valigia di legno piena di volantini del presidente Menna. Fu una gioia immensa quella gita, poter lasciare l’orfanotrofio per un giorno, visitare la Capitale, una gioia infinita. Un giorno il cuoco Michele Buonanima dimenticò i fagioli cucinati il giorno prima nella caldaia di rame. L’ indomani la pasta e fagioli nessuno poté mangiarla perché i fagioli si erano tutti ossidati, ma gli istitutori ci imposero di mangiarli ma per quanti sforzi e la fame quale condimento, non si riuscivano a ingoiare solo qualche cucchiaio. Uno di noi che non ho mai dimenticato Umberto Gaetolanza li mangiò tutti, essendo sempre affamato e abituato a rastrellare tutto ciò che rimaneva sulla tavola. La situazione ebbe conseguenze letali per la nostra pancia al rientro in camerata fu caccia al primo bagno, ma alla fine, tutto si risolse senza ulteriori conseguenze. Sempre in sesta camerata avevamo come istitutore il professore Nicola Sarlo, una bravissima persona, aveva due figli Guglielmo e Giampiero che venivano a scuola da esterni nella mia classe perché era consentito in istituto frequentare la scuola anche se non interni due ragazzi due amici che ancora oggi ricordo con piacere. Essendo io caposquadra ero anche addetto al ritiro della biancheria, il cosiddetto cambio e sempre con la famosa richiesta firmata (spesso le firmavo io perché avevo imparato a copiare la firma del professore Sarlo) e ritiravo dalle suore senza alcun problema. Con il passaggio alle scuole medie ero diventato più grande ed ero passato in II camerata dove c’erano al centro delle colonne di ferro. La sera, per gioco, accostavamo i letti per fare a gara saltando da una colonna all’altra, oppure al lancio della coperta, che molte volte si rompevano perché ormai usurate. Era un grande divertimento semplice ma ci rendeva felici. Alle scuole medie veniva esterno nella mia classe Antonio “Tonino” Florio, figlio del maestro ed istitutore Francesco Florio anche con lui strinsi una grande amicizia che ancora oggi è forte e duratura. Molte volte andavamo a fare la passeggiata sul castello Arechi raggiungendo la Bastiglia, altro momento di svago e occasione per raccogliere le carrube (sciuscelle) e le sorbe pelose (sorvole) un piccolo frutto dolce buonissimo che avremmo, poi, mangiato in istituto. In estate, quando andavamo per svagarci sul campo sportivo, molti si allontanavano per raggiungere la vasca (a pischera ) dove approfittavamo per fare il bagno: era fredda perché la stessa era alimentata da una sorgente. Naturalmente ci tuffavamo dal muretto nella nostra piscina privata e ricordo con affetto i fratelli Romano, che facevano a turno tuffi acrobatici. Eravamo spericolati perché ragazzi svegli e pieni di forza e vigore. Quando a fine mese c’era il cambio delle lenzuola altro momento importante, le stesse venivano legate a forma di balle, quindi buttate letteralmente per le scale facendole rotolare e a volte le lanciavamo anche dalla finestra. La cosa indispettiva moltissimo le addette alla lavanderia, la signorina Bello e la signora Papa che, prontamente ci sgridavano con forza, provocando in noi ancor più godimento. Il tempo passava, gli anni erano quindici, ormai grandicello passai alla terza camerata dove ognuno di noi aveva un armadietto dove riponeva le proprie cose io nel mio avevo creato una sorta di cappella con immagine sacre con lampadina collegata ad un filo di una torcia e quando aprivo l’armadietto si accendeva . Come Capo scelta avevo Ubaldo Irpino (che era in ceramica) il quale dopo essere andati a letto a volte per punizione ci faceva alzare e mettere in riga sugli attenti, perché qualcuno aveva fatto qualcosa di sbagliato. Ricordo con affetto gli amici che erano con me Vincenzo Caruso, Alfredo Lembo che ogni mattina si alzavano alle cinque e trenta per fare ginnastica e altri amici andavano a correre in villetta, per mantenere la forma credo ancora oggi non me lo spiego, quando la sveglia per tutti era alle sette. Ci eravamo procurati un ferro da stiro elettrico e ci stiravamo i pantaloni le camicie per essere sempre in ordine, una sera in camerino, una piccola stanza che fungeva da studio per l’istitutore di turno c’era Amelio Lombardi che stava stirando, siamo entrati di soppiatto insieme ad alcuni amici e abbiamo attorcigliato il filo, lui inveiva contro di noi gridando di lasciare il cavo altrimenti non passava la corrente, e noi tutti a ridere. Le giornate passavano in villetta a giocare al pallone fatto di pezza, in quella villetta cinque sei squadre ma mai che si sbagliasse il compagno e mai la palla, ogni squadra la sua. Lo spazio sotto la lavanderia e davanti al cancello d’accesso della tipografia si giocava ad un sola porta due squadre un solo portiere che si alternava che gioia immensa, e il tempo correva. Un altro dei giochi era quello delle partite al calcetto che consisteva con due rotelle un bottone di un cappotto (prima si poteva fare questo gioco perché il pavimento della villetta era fatto di lastroni di cemento, ed era possibile creare un piccolo campetto di gioco dove con le dita si spingevano le rotelle verso il bottone sulla porta disegnata e vinceva chi faceva goal come avviene oggi con il subbuteo. C’era chi si industriava con le vendite di caramelle, gomme e sigarette, un modo per mantenersi economicamente, quando si andava a fumare di nascosto sulle scale della ceramica c’era sempre una sentinella che faceva la guardia e per premio riceveva alcuni tiri della stessa, si fumavano le sigarette “Esportazione” quelle nel pacchetto verde con la caravella, e la mezza sigaretta era il segno dove finiva la scritta esportazione e si passava ad un altro ragazzo. Sono stato in tipografia dove ho imparato il mestiere che ho fatto una volta uscito quale linotipista e l’ho svolto fino a raggiungere la pensione. Sono stato fortunato avendo avuto l’onore e il piacere, negli anni ottanta di collaborare con il commendatore Menna, alla stesura del suo libro “Un’ istituzione allo specchio” essendo addetto alla sua composizione in tipografia e alla sua impaginazione e alla stampa avvenuta nella tipografia dell’orfanotrofio Umberto Primo Salerno. Ogni mattina alle ore sette mi telefonava per venire a prendere le bozze e curare l’impaginazione un vero fianco a fianco con il nostro grande Presidente Alfonso Menna che è stato per me e per tutti gli allievi un padre. La mia vita nel Serraglio, l’educazione rigida mi ha aiutato tanto sia nella leva militare che nella vita, oggi lo ricordo con tanto affetto e ringrazio tutti per ciò che mi hanno donato, in primo luogo una bel bagaglio di emozioni e cameratismo.