L’amore ai tempi del Serraglio
Essere uno dei ragazzi più grandi in quel momento, e godere della fiducia di tutti gli istitutori, mi permetteva di avere una certa libertà in fatto di uscite anche al di fuori delle passeggiate “in formazione”. Questo mi aveva portato ad avvicinare quella ragazzina, più o meno quindicenne, che, com’è facile immaginare, in quel momento era diventata il mio mondo, il mio solo appiglio per non disperarmi. Me ne ero innamorato, e lei mi corrispondeva.
Di LUIGI BRANCACCIO
Guardando la foto dell’Orfanotrofio Umberto I con alle spalle, in alto, il Castello, mi sono rivisto due anni fa lì sopra quando, a sorpresa, mia figlia, amici e cugini di Salerno hanno organizzato la festa dei per i miei 70 anni. È stata un’emozione fortissima, prima perché ancora adesso mi domando come mia figlia sia riuscita ad organizzare il tutto a mia completa insaputa, poi perché, la sensazione di ritrovarmi su un posto dove da ragazzo, con tanti compagni, facevo scorrerie, avendo più sotto la “casa” che per tanti anni mi ha visto crescere, è stato qualcosa di indescrivibile. Nel tempo ho avuto modo di fissare le emozioni in versi, ed anche in quell’occasione avevo abbozzato una decina di righe con il proposito di riprenderle tornato a Roma. Non ci avevo più messo mano, lo annoto con tutta onestà, ma quella foto mi ci ha riportato sopra, e così, come fossi fermo ancora sul Castello, rivedevo il collegio di sotto, le passeggiate domenicali sul lungomare, e qualcosa che ho ricordato con nostalgia ed un certo pudore nei versi che andranno a fare parte della nuova “raccolta” che il periodo di clausura da Coronavirus mi ha consentito al momento di ordinare in bozze, e che mi piace qui anticipare anche per un senso di liberazione da un peso che ancora mi porto dietro. Nel 1966 avevo 18 anni, tutti i miei compagni erano andati via mentre io sono rimasto all’Orfanotrofio fino al settembre dell’anno successivo. Pur avendo acquisito nuove amicizie, fondamentalmente ero solo, e quell’anno passato in più fu uno dei più sofferti a livello interiore. Trovavo un po’ di quiete quando si usciva la domenica o per la partita o per la passeggiata sul lungomare, quasi sempre facendo la strada che l’amico Alberto Moscariello mi ha ricordato essere Porta San Nicola, quella che da sotto l’Umberto I cominciava con gradoni larghi. All’altezza della casa del rag. Vitale, che era su Via de’ Renzi, di sotto su quei gradoni c’erano delle abitazioni in una delle quali viveva una famiglia con due-tre figlie femmine. Avevo cominciato a prendere confidenza con una di quelle ragazze, credo fosse la seconda, snella, capelli lunghi neri, molto vispa, scambiando qualche parola quando la vedevo dalla sala linotype della tipografia entrare da Michele il salumiere, la cui bottega era di sotto. Essere uno dei ragazzi più grandi in quel momento, e godere della fiducia di tutti gli istitutori, mi permetteva di avere una certa libertà in fatto di uscite anche al di fuori delle passeggiate “in formazione”. Questo mi aveva portato ad avvicinare quella ragazzina, più o meno quindicenne, che, com’è facile immaginare, in quel momento era diventata il mio mondo, il mio solo appiglio per non disperarmi. Me ne ero innamorato, e lei mi corrispondeva. Fino ad allora avevo avuto qualche cottarella alla scuola d’arte, ma erano già passati quattro anni che delle ragazze della mia classe non sapevo più nulla. Non avevo sentito ancora un corpo di donna, pur se ragazzina, stretto a me. Aveva una linea così leggera, sinuosa, che ho sempre raffigurato il mio ideale femminile in quel corpo. Quando mi ha baciato per la prima volta, era anche la mia prima volta. Non so chi avesse fatto la spia tra i nuovi compagni della linotype: sono certo che da qualcuno di loro partì la soffiata. Un giorno uno degli istitutori mi chiamò per mettermi in guardia, ma non perché si cominciava a vociferare sulla mia infatuazione ma perché, così mi riferiva, si sapeva che quella ragazzina e la sua famiglia non erano “a modo”. Non badai a quelle voci fino alla festa di S. Matteo. Presso una delle giostre che erano sul lungomare vidi lei abbracciata ad un uomo molto più grande che se la sbaciucchiava. Mi cadde il mondo addosso. In una delle palazzine del lungomare mia zia Maria aveva il portierato: me ne sono andato a piangere da lei prima di rientrare nei ranghi con gli altri ragazzi. Per alcuni giorni lei provò a chiedere di me a qualche compagno affacciato alla finestra della sala linotype, ma io mi negavo. Un pomeriggio di quelli che potetti godere di una uscita fuori ordinanza, mi fermò dinanzi al portone di casa sua. Non riuscii ad evitarla, e il cuore andava a mille. Cercò di giustificarsi. Mi vergogno ancora adesso che scrivo nel ricordarlo: le dissi «Puttana!», le girai le spalle e me ne andai per i fatti miei. Dovette aver passato brutte notti anche lei perché solo dopo un paio di mesi, credo fosse gennaio del 1967, fui chiamato in Direzione, dove, alla presenza di vari istitutori, di Padre Beda, e perfino della suora della sartoria, mi fu detto che la “ragazzina” era venuta a denunciare il mio pesante insulto. Se quando l’ho vista baciarsi alle giostre mi era caduto il mondo addosso, in quel momento che tutti i presenti mi giudicavano, accusavano, condannavano, sentivo di non esistere più. Ero completamente assente ed avevo solo desiderio di scappare dalla stanza per fare qualcosa che tante volte sentivo di dover fare dalla camerata o dalla ringhiera della villetta: un salto giù. Come Direttore era subentrato il Generale Saverio Pintozzi, che, per l’esperienza avuta nell’anno che sono rimasto in più al “serraglio”, ricordo con simpatia. Credo lui avesse letto dentro di me la disperazione che avevo per tutto, e quanto mi pesasse quell’insulto alla ragazza. Fece zittire tutti e senza dare spiegazioni mi fece uscire dalla stanza. Mi aveva disarmato. Non ricordo cosa feci, se andai in camerata o in tipografia a lavorare, sta di fatto che ogni altro proposito di misurare le altezze da cui lanciarmi era svanito. Mentre festeggiavo al Castello Arechi i miei 70 anni dinanzi a me avevo il meraviglioso golfo che ogni giorno guardavo dalla villetta o dalle camerate nei miei anni “umbertini”, rivedevo le uscite domenicali, e quella ragazzina di quindici anni che chi sa quale strada abbia poi preso. Nella disperazione e delusione di quei giorni c’era in me troppa superbia, ma già allora mi sarei voluto mordere la lingua per quell’epiteto dispregiativo e degradante, il cui peso, sono certo, avrà accompagnato anche lei per tanto tempo. Ancora adesso, che giornali, tv e cinema, sono infarciti di parolacce di ogni genere, provo un enorme fastidio per quella parola che mai più ho pronunciato, né ripeterò qui. I versi vogliono essere anche un modo per ripagare quella ragazza, oggi madre, nonna, chi sa, del male che allora le ho procurato.