Oltre quelle cancellate……solo domeniche
Il cognome Nappo apparteneva a ben tre fratelli , Giuseppe, Raffaele e Vincenzo che intorno al 1930 vennero ospitati all’Orfanotrofio Umberto I. Invidia e fierezza per la divisa, la banda, l’entrata al Vestiti a tifare la Salernitana, quella falsa armonia che ammaliava gli occhi del piccolo Giuseppe che scrive e che sa ora che quello non era affatto oro di coppella.
Di GIUSEPPE NAPPO
Chissà quante volte il mio cognome è risuonato nelle austere camerate del serraglio. Penso vi sia rimasto appiccicato come una scoria in una crepa o un lembo di carta da parato su di un muro sbrecciato. Il mio cognome apparteneva a ben tre fratelli , Giuseppe, Raffaele e Vincenzo che negli anni 30 vennero lì ospitati. Loro, canalonesi, rimasti orfani di padre in età scolare vennero portati nell’istituto. Scampò a quel destino solo mio padre, Mario, il più piccolo della famiglia, solo perché all’epoca aveva solo tre anni. Della sua crescita si presero cura madre, sorelle e fratelli, visto che il nonno ebbe modo di generare ben nove figli. La grande famiglia Nappo superò quella prova e anche le successive con una forza granitica rimanendo una famiglia coesa ed invidiabile. Parrebbe una storia lontana , invece quel crescere dentro o crescere fuori sarebbe diventata la linea guida della mia formazione adolescenziale. Bambino ricordo il racconto dei miei zii, dei patimenti e delle difficoltà messe sul tavolo, fisico non metaforico , visto che il desco era il luogo canonico della famiglia Nappo riunita, tanto da essere presa ad esempio di famiglia matriarcale. Ecco che in tali memorabili e consuetudinarie occasioni le vicissitudini dei “serragliuoli” ritrovavano voce, forma e ricordo. A volte, gli accenti recriminatori e lagnosi arrivavano a mostrare forme di invidie, verso mio padre. Dal cuore degli zii visto come il privilegiato di famiglia, quello salvato a loro discapito. Ricordo la fermezza di papà nel ribaltare la loro tesi, forte della sola descrizione della sua pena di essere stato orfano non solo del padre ma contemporaneamente dei tre fratelli più prossimi di età. Quando essi ricordavano la brodaglia ricevuta a cena era solito rammentare loro di doversi ritenere dei fortunati. Almeno ogni sera qualcosa di caldo lo avevano mangiato, mentre a casa nelle stesse tristi sere, il solo calore che poteva scaldare il resto della famiglia era il consolatorio sapere che almeno i tre nel serraglio una zuppa l’avessero mangiata. Pure, l’essere passati dal crogiuolo dell’orfanotrofio, veniva a posteriori raccontato, da chi non aveva ottenuto lusinghieri successi nella vita seguente, come causa e scusante alla loro vita grama. In quei casi erano gli stessi fratelli serragliuoli a proporre letture differenti. Cosi tra gli sfottò, emergevano verità inconfutabili di chi in quel contesto innegabile di “reclusorio minorile” aveva saputo mettere a frutto l’occasione per apprendere un lavoro e chi quel tempo lo avesse sprecato. “ Ciucc è trasut e cuccio si asciuto!” .Ecco la mia formazione adolescenziale crebbe in una visione bilanciata tra il dentro e fuori. Passati che erano trent’anni dai racconti in quelle camerate risuonava ancora il mio cognome. L’istituto era ancora presente nel nostro ambito familiare, territoriale e sociale e nei tempi della mia adolescenza il cognome “Nappo” che risuonava nelle camerate era quello di un cugino. Nel più classico dei corsi e ricorsi storici quello “fuori” non più mio padre ora ero io. Io, con i tanti cugini “fuori”, eravamo i fortunati gli invidiati dal cugino in collegio! Io che volevo bene, e voglio bene a mio cugino, però mal sopportavo quel “martire” in libera uscita domenicale. Quello che in famiglia era vezzeggiato e coccolato più di ogni altro e da tutti i parenti. Quello che ogni domenica era rimpinzato di caramelle e dolciumi, anche da portare ai compagni nel serraglio! Mentre io ero con gli altri cugini sempre a fare l’acquolina in bocca. Per noi nessuna eccezione, eravamo quelli “fuori” che potevamo avere tutto, ma che a conti fatti non avevamo nulla. Il cugino serragliuolo, arrivava in divisa, in giacca e pantaloni, lungo d’inverno e corto d’estate, mentre il nostro estivo era il lungo tagliato corto alle ginocchia. Ecco ancora a distanza di una generazione quella riproposizione dei ragazzi del serraglio di considerare la vita fuori fatta tutta di “domeniche” veniva fuori, prepotente e falsa. Come mio padre anch’io cercavo di ribaltare il senso di essere giudicato privilegiato da quelli di dentro il serraglio. Cose a me negate o da conquistare a prezzo di sacrificio a loro era concesso e spesso neppure apprezzato. Dal pallone che cadeva in via De Renzi, e che siccome non ne ho mai avuto uno, attendevo speranzoso pur di fare almeno un tiro ad una palla. Lo rilanciavo con prontezza, una volta venni anche preso a calci da un ragazzo che lo voleva rubare. Si tante volte ho invidiato l’armonia delle grida sulla “villetta”, come pure le divise ordinate dell’Umberto I con cui vedevo scendere i ragazzi dai gradoni nel centro storico. Che dire poi del mare: io con la “mappatella” e i serragliuoli negli stabilimenti al porto, o allo stadio Vestuti ; che “freva” mi prendeva nel vederli entrare tutti belli allineati, mentre io ero costretto a trovarmi lo “zio di giornata” che si impietosisse per accedere alle gradinate. Questa velata invidia pero si trasformava in ammirazione pura quando nelle molteplici manifestazioni o processioni cittadine la Banda dell’Umberto I suonava per tutti noi. In quei frangenti ero consapevole che dietro quella sincronia di note, strumenti e musica si celavano tante, ma tante ore passate a provare infinite volte le note monotone, le scale musicali tristi che sentivo incunearsi su per il Canalone. Ecco in quelle occasioni il mio sentimento mutava in ammirazione, quegli applausi che la gente vi tributava non era solo per la musica eseguita ma era l’apprezzamento alla reazione alla vita, avversa trasformata in riscatto personale, sociale , cittadino. Innocenti, provati dalla vita avevate trovato nella corsa ad handicap la forza interiore per riemergere più forti di quelli “fuori”. Nel prosieguo della vita, oltre ai musici ho imparato ad apprezzare tanti ex allievi che hanno dato prove eccellenti in svariati mestieri: falegnami, ceramisti , tipografi o come mio cugino, meccanici. Comune in loro il pudore nell’ammettere di aver appreso la loro maestria dentro il serraglio e invece di mostrarsi orgogliosi di essere stati più forti del destino avverso, spesso mi hanno dato l’impressione che anche loro avessero pensato che fuori dai cancelli fossero state tutte “domeniche”.