Di GIUSEPPE LA ROCCA
Primo ottobre 1966. Arrivai in istituto verso le 6:45 accompagnato da mio padre. Non sto a raccontare il saluto a mia madre, a mia sorella e a mio fratello per il mio primo giorno nell’Orfanotrofio Umberto I. D’altra parte il passaggio dall’ambiente casa a quello della scuola è un varco importantissimo, sia per i bambini che per i genitori e non ha senso illudersi o vergognarsi, che questo passaggio possa avvenire in modo del tutto indolore. È quasi inevitabile che si pianga al momento del distacco, poichè il pianto è un modo per scaricare la tensione della novità, del cambiamento. E così fu. L’accoglienza rappresentò un altro fondamento essenziale di quel primo giorno. La parola “Accoglienza”, così intesa, apre a riflessioni sul modo di intendere la relazione educativa: è una modalità peculiare di stare in relazione con gli alunni, è un metodo di lavoro che può investire tutta l’organizzazione della scuola, dagli spazi ai tempi fino alle relazioni. Accogliere significa interessarsi alla storia dei propri alunni, alle abitudini e alle caratteristiche uniche di ciascuno e creare connessioni tra la loro vita a casa e le esperienze che compiono a scuola. La mia “Accoglienza” fu ben altro. Ci accolse “Benito De Rose”, colui il quale da quel momento in poi, fu Benito per tutti noi. Mio padre mi lasciò perché doveva andare al lavoro e Benito mi accompagnò in una sala dove c’erano già altri ragazzi ad aspettare. Dopo una mezz’ora giunse il rettore, un generale in pensione di cui non ricordo il nome, insieme ad altri signori. Fece una specie di appello e dopo un breve consulto prese la parola, dandoci così il benvenuto: “Ragazzi per il vostro bene, per garantirvi un futuro, i primi tre dell’elenco e legge i tre nomi, saranno avviati alla scuola di tipografia, a seguire il quarto alla scuola di calzoleria e gli altri alla scuola di musica”. Io proprio perché quinto nell’elenco, mi trovai in prima camerata e iscritto in prima media nella scuola annessa alla sezione staccata di Salerno del Conservatorio S. Pietro a Majella, nella classe di fagotto del Maestro Alfio Poleggi, che mi ha portato, dopo anni di studio ad entrare nella banda musicale della Guardia di Finanza. Un colpo di fortuna. Terminata“l’accoglienza” fummo accompagnati in quella che sarà per tutti “la villetta”. Dire che mi sentivo solo, smarrito, abbandonato in un luogo dove c’erano più di 500 ragazzi che correvano, che giocavano è poco, comunque, vicino alla ringhiera della villetta c’era un bambino che aveva diversi fumetti di Topolino, un giornalino che mi piaceva tantissimo. Lo salutai e gli chiesi se per favore mi avesse fatto leggere uno dei sui fumetti “Che c…. vuò?” fu la risposta: Accoglienza!