di Aldo Primicerio
Un tema appassionante, proprio perché complesso ed irto di insidie. Cominciamo con la proprietà delle espressioni, una rarità tra i media e la gente che sparla in tv o sui social. L’uccisione di una donna non è sempre un femminicidio. Per essere tale – come spiegano al Ministero degli Interni, nelle Procure e come ci detta il buon senso – occorre andare per esclusione. Un omicidio, per essere definito femminicidio, deve presentare due elementi: il contesto relazionale tra l’esecutore e la vittima, e le motivazioni che muovono l’omicida (come la gelosia, il dominio, il possesso). Il caso della donna uccisa in un parco o per istrada da un estraneo non è un femminicidio. E qui vanno quindi presi in considerazione quelli maturati in ambiente familiare o affettivo. O, in una interpretazione più restrittiva, quelli in cui l’autore è il partner o un ex partner.
Media, errori nei numeri, sviste compulsive
E poi i numeri. E’ inesatto che si parli e si scriva di un fenomeno in aumento. Siamo noi che lo pensiamo, presi dalla suggestione delle circostanze drammatiche di un episodio e dalla enfatizzazione dei media. Dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin, Sky TG24 ha impiegato tre giorni per riprendere a parlare delle guerre a Gaza o in Ucraina, dove muoiono centinaia di bambini e di donne ogni giorno. Una decisione scandalosamente compulsiva dei vertici di quel telegiornale, travolti dalla iperemotività. Il fenomeno delle donne uccise in ambito familiare/affettivo sembra, ripetiamo sembra, invece in diminuzione: 101 nel 2020, 105 nel 2021, 88 al 12 novembre 2022, 82 alla stessa data di quest’anno. Per non essere smentiti dovremo, è chiaro, attendere la fine di quest’anno.
Le polemiche, perché quasi tutte femminili? Chi è più maschilista?
E poi le polemiche, se leggiamo con attenzione, quasi tutte femminili. Schlein, Gruber, Meloni, Santanché, Ascari e via dicendo, sulla cultura patriarcale e sessista. Quasi tutte donne. Ma perché quasi solo donne? Lo spiega, in modo anche provocatorio, Giuseppe Pino Maiolo, uno degli psicologi più gettonati in questi frangenti. Perché le donne saprebbero essere più maschiliste e sessiste degli uomini. Perché per farsi strada nel mondo del lavoro si comporterebbero come uomini, spesso molto peggio. Donne che colpevolizzerebbero le vittime. Donne che commenterebbero con termini sessisti e svalutanti altre donne. Donne che giustificherebbero la violenza sulle donne: “Se l’è cercata”, “Ma suo marito la fa uscire così di casa?”, “Mio marito mi picchierebbe per molto meno”, “Quando erano gelosi erano contente, poi si lamentano che questi non vogliono essere lasciati e le riempiono di botte?”. E donne che (poche per fortuna), legittimerebbero comportamenti abietti e persino i femminicidi. Verbi tutti al condizionale, come si può notare.
Le generalizzazioni. La violenza come fatto culturale e non biologico. Lo stereotipo patriarcale da superare
E poi ancora gli stereotipi, le opinioni precostituite e generalizzate. Molti, molte continuano a dire ed a scrivere: l’omicidio di genere è un fatto culturale. Perché qui non c’è soltanto l’atrocità di un omicidio, ma di un omicidio culturale, Che ha richiesto nel tempo una categoria autonoma per essere affrontato. Se in parte è cieco, privo di ragionevolezza, dall’altra ha richiesto nel tempo una categoria a sé stante per essere affrontato. Se in parte è privo di sensatezza, è al contrario culturalmente costruito e fondato su una sua storia, quella del patriarcato. Lo scrive Simone Weil, la filosofa scrittrice francese morta a 34 anni di linfoma di Hodgkin, un tumore di cui allora si moriva in poche settimane, ma oggi curabile ed anche guaribile. Dalla dichiarazione dell’ONU emerge l’idea ormai condivisa che la violenza contro le donne sia di fatto «la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne. Ma proprio perché la violenza è un fatto culturale e politico, che attiene ai rapporti di potere e alle diseguaglianze di genere in tutti gli ambiti di vita degli uomini e delle donne, non possiamo continuare a pensarla come un destino biologico. La violenza si può dismettere.
Tutte le diverse agenzie, formali e informali (famiglia, scuola, politica, religione, mezzi di comunicazione, ecc.) influenzano la costruzione dell’identità maschile e femminile. In una cultura patriarcale e sessista – afferma mirabilmente la sociologa Silvia Fornari – viene veicolata una rappresentazione del genere femminile sottomesso al potere maschile, elaborando la oggettivazione del corpo femminile, in cui le donne esistono innanzitutto per e attraverso lo sguardo degli altri, cioè in quanto oggetti accoglienti, attraenti, disponibili. Una complessità in cui il nostro immaginario quotidiano si forma attraverso i processi di astrazione e definizione della realtà, ovvero con e grazie agli stereotipi. Forme predefinite, fisse, che si imprimono nella memoria, nel pensiero, nella cultura, nelle relazioni; una forma di semplificazione rozza, con la quale si pretende di descrivere una realtà molto più complessa. La costruzione dell’identità femminile e maschile non può quindi prescindere dal superamento di stereotipi consolidati. Riuscire a cambiare i riferimenti stereotipati che vanno a influenzare le nostre scelte di vita, porterebbe dunque alla liberazione primariamente delle donne, aiutandole nel processo di emancipazione e superamento delle barriere che le si interpongono nel corso della vita. Sono le nuove generazioni, di ragazze e ragazzi ancora in divenire che possiamo aiutare a oltrepassare preconcetti e chiusure mentali.
Le sviste mediatiche ed istituzionali. Le soluzioni. La scuola (ma non quella di oggi) luogo di rifondazione dell’umanità
E poi ancora le sviste. Innanzitutto quelle di giornali e media, cui si contesta la sovra-rappresentazione di fenomeni minoritari di violenza. Qualche esempio? Il primo è il divario di rilevazione dei reati. Il reato più frequente registrato dalle Procure dei tribunali è dato dai maltrattamenti familiari (51,1%), il secondo dallo stalking (30,7%), il terzo dalla violenza sessuale (17,1%), il quarto dal femminicidio (0,7%). Dai casi di violenza riportati invece dalla stampa ci viene restituito un quadro in cui il reato più diffuso e problematico è lo stalking con ben il 53,4% degli articoli, seguito dai casi di omicidio/femminicidio (44,5%). Solo al terzo posto, con il 14%, troviamo casi di violenza domestica che invece rappresentano la larga maggioranza dei reati contro le donne. E poi la narrazione di frequente incentrata sulla vittima, spesso citata solo per nome forse a rimarcare lo status filiale e di non autonomia della donna. E poi il bias, la distorsione cognitiva sulla violenza maschile, che non è mai connotata come un episodio di perdita di controllo, ma come un esercizio continuo di prevaricazione.
Ed infine le soluzioni. Dopo il torpore di decenni, pensiamo di risolvere in una dele solite frettolose riunioni del Parlamento, usando la scuola come luogo di divulgazione del messaggio di convivenza di coppia, di rispetto dei sentimenti. Tutto forse anche giusto, ma anche troppo semplicistico. Nessuno dice come, con quali mezzi, con quali risorse e con chi, se pensiamo alla povertà strutturale e stipendiale in cui vive la scuola italiana. Che quindi va ripensata se vogliamo rifondare l’umanità perduta.
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