di Martina Masullo
“C’è un fumetto bellissimo ispirato al romanzo di Antoine de Saint-Exupéry”. Inizia così – mentre apro la mia agenda con l’immagine del Piccolo Principe in copertina per prendere appunti – la conversazione con il professore Virgilio D’Antonio, direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e della Comunicazione, ordinario di Diritto comparato dell’Informazione e della Comunicazione e appassionato e cultore del fumetto come linguaggio della modernità. Durante questa intervista, in cui il professore D’Antonio ha raccontato del suo ruolo di direttore del Dispc, ma anche dei progetti e delle ricerche in essere e delle prospettive future, una parola chiave si è imposta sulle altre: contaminazione. Lasciarsi contaminare dai saperi, dunque, ma anche dalle esperienze, dai luoghi e dalle persone che viviamo nella quotidianità e nel lavoro: per D’Antonio questo è fondamentale e salvifico.
Dal 2018 è direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e della Comunicazione, il più giovane dell’Università degli Studi di Salerno. Una bella soddisfazione: come sono stati questi anni?
Sono anni splendidi questi: di lavoro, crescita e formazione, personale e accademica. Dirigere un dipartimento universitario rappresenta, prima di tutto, un grande onore: significa che molti colleghi ti hanno ritenuto maturo per quel ruolo e spetta a te il compito di ripagare quella fiducia, realizzando le aspettative loro e quelle tue personali. In questo, c’è anche la dimensione della responsabilità: si lavora per contribuire a creare qualcosa di positivo per i colleghi come per gli studenti. Personalmente, ho cercato, innanzitutto, di contribuire a creare una comunità di persone e di studiosi accomunati non soltanto da determinati interessi scientifici, ma anche da una visione condivisa dell’accademia. Le sfide sono state tante, comprese quelle legate alla pandemia, ma sono molto contento di come è cambiato e si sta evolvendo il dipartimento in questi anni, arricchendosi di anime e saperi, con una capacità di dialogo interna ed esterna notevolissima. In questo senso, penso che le nostre strutture universitarie non debbano mai rappresentare un confine, un argine nelle relazioni (umane ed accademiche), bensì un luogo comune di riflessione, di ricerca e formazione, sempre capace di evolversi, mutare, rigenerarsi per rispondere ai cambiamenti che ci circondano.
Tra i suoi temi di ricerca, uno dei più forti e affascinanti è quello del diritto all’oblio online, il cosiddetto “diritto di essere dimenticati”. Ma essere dimenticati, in rete, oggi si può? E in che modo ci si può opporre alla furia persistente dei social media?
Penso che oggi si possano fare delle scelte, più o meno consapevoli, rispetto alla propria presenza online nell’infinità di mondi digitali che la rete ci propone. Sfuggire completamente è probabilmente utopistico e antistorico. L’attività più o meno consapevole che ognuno di noi compie online, così come i dati che altri (con o senza il nostro consenso) caricano su Internet lasciano una “impronta” e il loro insieme contribuisce, progressivamente, stratificandosi nel web, a costruire l’identità (non soltanto digitale) di ciascun utente. Un’identità che è, al tempo stesso, dinamica e fluida, per un verso, e statica e permanente, per un altro. Tutte le informazioni che seminiamo o che di noi seminano online si sommano nella nostra biografia digitale ogniqualvolta navighiamo nel web, quando interagiamo online, così come quando un altro utente di Internet pubblica informazioni che ci riguardano. Se questo è il tratto di costante dinamismo dell’identità digitale, d’altro canto, questa dimensione della personalità umana presenta pure una caratterizzazione statica, per certi versi cristallizzante, poiché tutto ciò che entra nella Internet land vi rimane perennemente. Ecco: in questo “mondo nuovo”, alle volte, lo sforzo non è più rivolto a essere ricordati, bensì a essere dimenticati. Eppure, essere dimenticati non significa tanto “sfuggire” al web, quanto pretendere che la rete ci descriva per come siamo (o ci percepiamo) e per come si evolvono le nostre personalità nel tempo. Borges sosteneva che la nostra memoria, come la nostra identità, è composta, in gran parte, di dimenticanza: ecco, il diritto all’oblio rappresenta, allora, il tentativo di liberare gli individui dalla prigionia del proprio passato, infrangendo la promessa intrappolante di Internet di cancellare, per sempre, i limiti della memoria.
Uno degli ultimi libri da lei curati s’intitola “Diritti digitali”. Ce ne vuol parlare?
Si tratta di un volume collettivo al quale hanno lavorato con me diversi autori più giovani; è un libro che si occupa di temi molto attuali: dall’oblio al diritto di accesso alla rete, dal digital divide alla cittadinanza digitale. Insomma, una serie di riflessioni su come i diritti fondamentali sono cambiati, stanno cambiando e rinascono a confronto con il web. Cosa manca a questo libro? È soltanto accennata la dimensione delle intelligenze artificiali generative. Oggi sono questi gli strumenti che stanno veramente cambiando la nostra percezione del web: prima eravamo abituati a confrontarci con strumenti di navigazione e ricerca che restituivano una serie (enorme) di contenuti, oggi l’intelligenza artificiale addirittura ne genera di nuovi, secondo paradigmi di creatività algoritmici e non umani. La riflessione sulle AI sarà uno dei temi portanti del prossimo futuro, con cui ci dovremo confrontare secondo un approccio che non potrà che essere multidisciplinare. Può sembrare un racconto di Philip Dick, ma proprio in questi giorni sto commentando la prima sentenza, pronunciata da una corte peruviana, che è stata scritta utilizzando un’intelligenza artificiale: sono molto curioso di comprendere dove queste nuove tecnologie ci porteranno e come saremo in grado di utilizzarle.
Qual è il suo background culturale e il suo percorso di studi?
Vengo da studi classici e il mio percorso di formazione universitaria si è svolto qui presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Salerno, che mi ha visto allievo del prof. Stanzione, attuale Garante Privacy. Mi sono laureato molto, molto presto e, subito dopo, ho fatto il dottorato: ho trascorso un periodo di studio negli Stati Uniti, presso l’University of Illinois, e ho continuato a coltivare interessi di carattere comparatistico e sulle nuove tecnologie. Durante il dottorato, quando non avevo ancora compiuto 25 anni, ho vinto un concorso da associato in Diritto Comparato all’Università del Molise e, poi, a 35 anni, sono diventato ordinario. Negli ultimi anni ho sviluppato un forte interesse per i sistemi giuridici latinoamericani e, nel 2020, sono stato nominato “Doctor Honoris Causa” dalla Universidad Católica de Colombia. È stato un percorso di formazione importante, arricchito da incontri fortunati con ottimi maestri, un percorso che non è certamente terminato, perché fare il professore universitario significa non smettere mai di studiare e di formarsi.
Parliamo di passioni. Lei è un grande cultore del fumetto: è d’accordo con il critico francese Claude Beylie che lo ha definito la “nona arte”?
È vero: sono un appassionato (e collezionista) di fumetti, libri e giocattoli. Il fumetto è sicuramente un linguaggio particolarissimo, frutto del connubio felice, dell’incontro tra immagini e parole: fino a qualche anno fa era ancora concepito come forma espressiva di frontiera, oggi è un linguaggio consolidato. Rispetto alla definizione di “nona arte”, preferisco la formula di Hugo Pratt: “letteratura disegnata”. Mi pare sia più congeniale a descrivere un medium che sicuramente si è sdoganato dal pregiudizio di “leggerezza” che lo ha a lungo accompagnato, ma dove anche la serialità continua a svolgere un ruolo fondamentale. Ciò non toglie che esistano fumetti che sono capolavori assoluti che hanno segnato profondamente il nostro immaginario collettivo, per i quali non mi parrebbe forzato parlare di vera e propria opera d’arte. Alle volte, ho avuto la fortuna di poter conciliare il fumetto o, più in generale, la letteratura nei miei studi: ad esempio, nel filone di studi collegato a Law and Literature, mi è capitato di proporre alcune riflessioni sul concetto di giustizia in Pasolini o, anche, in Daredevil, un fumetto della Marvel. In questo, mi aiuta insegnare a Scienze della Comunicazione da molti anni: da appassionato, mi lascio incuriosire dagli studi dei miei colleghi (non giuristi) su questi temi.
Si è aperto da poco il nuovo anno accademico: un consiglio o una riflessione rivolta ai giovani che hanno appena iniziato questo percorso e a quelli che, invece, vogliono continuare anche dopo la laurea?
Il mio consiglio è di lasciarsi contaminare dalle conoscenze che l’Università ha da offrire: mi riferisco all’Università nel suo complesso, anche oltre il singolo corso di laurea che uno studente può aver scelto. Gli Atenei sono luoghi magnifici da questo punto di vista, ricchissimi di opportunità di conoscenza per chi ha la sensibilità per coglierle. Questo vale ancora di più per una realtà come la nostra che fonda la propria essenza sull’idea di campus: ci si può divertire a passeggiare tra le aule, passando da una lezione sulla fisica quantistica a una di diritto, dall’informatica all’economia, dall’archeologia all’ingegneria meccanica. Ecco: una ricchezza infinita nella quale perdersi. Secondo me, è tutto questo l’università ed è questa ricchezza di esperienze e di voci che ci contraddistingue rispetto alle telematiche. Vissuta in questi termini l’Università diventa davvero percorso per allenare e sviluppare il pensiero critico, per imparare a pensare e ragionare, per acquisire gli strumenti per confrontarsi col mondo della modernità. Insomma, per diventare adulti.
E se, diventati adulti, questa curiosità non è svanita, allora si può aspirare a proseguire nella carriera universitaria, con la consapevolezza che fare il professore resta il lavoro più bello del mondo!
(da www.resistenzequotidiane.it)