di Alfonso Malangone*
All’inizio, si stava nelle caverne, e si usciva solo per procurarsi il cibo. Per lungo tempo, la vita si è svolta secondo ritmi primordiali, convivendo con la natura in uno stato di sottomissione intriso di paura e anche di terrore. Poi, nel corso delle diverse epoche, molto è cambiato, finché non ha prevalso il convincimento di essere i padroni di tutto e di poter disporre a piacimento di ogni cosa. Qualcuno si è addirittura convinto di avere i poteri del creatore o, come dice chi parla difficile, del pantocratore, arrivando a modificare le informazioni genetiche degli organismi viventi. Il che, può essere un bene, se si fa a fin di bene, ma diventa un male, se si fa con una mente disordinata. E, secondo alcune fonti, il nemico invisibile che ci ha bruciato i polmoni qualche anno fa è stato proprio l’esito di inopportune manipolazioni. Cioè, ci facciamo del male dicendo di farlo a fin di bene. In realtà, il gioco con la natura è diventato assai pericoloso. Prima, l’abbiamo temuta, millenni fa, poi, l’abbiamo molestata e, adesso, siamo arrivati nuovamente a temerla dopo essere stati sconfitti da lei su tutti i fronti. Abbiamo perso contro l’acqua, avvelenata, o evaporata, o prosciugata e, comunque, ormai carica di liquami che ci affanniamo a definire non pericolosi; abbiamo perso contro l’aria, inquinata da fumi e polveri sottili; abbiamo perso contro il sole, che ormai arriva a bruciarci; abbiamo perso contro le piogge, che ci trascinano come fantocci e ci sommergono. Aver perso il rispetto per la natura, ha fatto perdere noi stessi. Tanti lo riconoscono, sia pure a posteriori, ma la cronaca ci riferisce di tanti altri che non possono farlo, avendo pagato con la vita gli errori commessi da incauti. Già. Perché se è vero che in una prateria un terremoto non fa danni, in luoghi diversi, dietro ogni sciagura c’è sempre un responsabile che ha progettato, che ha autorizzato, che ha realizzato, ciò che non poteva. La chiamiamo calamità, ma il più delle volte ha poco di naturale. Eppure, per stare più sereni e senza rinunciare alla crescita e allo sviluppo, sarebbe sufficiente rispettare con equilibrio ambiente e vita scegliendo le soluzioni giuste in rapporto alle condizioni presenti. Perché, non tutto va bene dappertutto e molte scelte sono frutto dell’unica volontà di rendere massimo il profitto di pochi anche costringendo molti a soffrire per questo. Nella nostra Città, benché la popolazione sia ormai diminuita al di sotto delle 126.000 unità al 30/09 scorso, contro i 135.056 del 2016, l’attività più dinamica sembra ancora quella dell’edilizia residenziale. Così, si continua a costruire sul mare, sulle falde acquifere, sulle sorgenti, sui pendii, sulle frane, iniettando cemento ed innalzando muraglioni. I dati Ispra 2023 dicono che in Campania, a livello di Città, Salerno è al terzo posto per cementificazione del suolo, dopo Napoli e Giugliano, con 2.050ettari, pari al 34,4% del territorio urbano. In ambito nazionale, tra i Comuni con oltre 100.000 abitanti, è al 12° posto. E’ già stato rilevato, in altra sede, che sui 5.985ettari occupati dalla Città, ne restano liberi 3.935 che, benché sembrino tanti, sono in buona parte inutilizzabili in quanto rappresentati da corpi fluviali, argini, terreni scoscesi, svincoli e rotatorie, ponti e viadotti (fonte: Ispra). Di fatto, la parte del terreno pianeggiante è quasi sparita o lo sarà, a breve, dopo la costruzione del nuovo Ospedale, che si estenderà su 22 ettari, dopo la piscina per i pescecani, dopo l’invasione del Centro Storico con il trincerone, per favorire – si teme – l’utilizzo a fini residenziali dei Conventi e dei Monasteri della nostra storia, dopo la cementificazione delle residue aree lungo la litoranea, compreso il Volpe, che è zona a rischio idrogeologico, e del vallone del Cernicchiara, da destinare – forse – ad area retro-portuale. Tutto questo, mentre la Città mostra di aver bisogno di Biblioteche, di Musei, di Teatri, di luoghi per l’arte, il sapere e il saper fare, di sale per lo studio dei giovani e di luoghi di aggregazione. Purtroppo, si sa, con la cultura è difficile mangiare. A collaterale, sembrano mancare scelte decisive per la qualità dell’aria, causa effettiva di un livello di inquinamento che neppure emerge pienamente, visto che le centraline di rilevazione sono solo tre e che, a parte quella di Fratte, che pure segnala qualche sforamento sui limiti (fonte: Arpac), le altre due sono presso il Parco del Mercatello e via Vernieri, aree davvero poco significative. Sarebbe utile il controllo sull’ingresso autostradale, sul viadotto Gatto o su via Vinciprova. Altre scelte decisive sembrano pure mancare per l’acqua del mare nella quale, ogni estate, l’incauto bagnante fa incontri ravvicinati che sarebbe igienico evitare. Basta vedere le foto di Luglio e Agosto. Intanto, però, si fa il ripascimento e si progetta di farlo anche in zone dove vige il divieto permanente di balneazione. Perché, come dice qualcuno, l’economia va sostenuta perfino spendendo a vuoto. Sul verde, è preferibile il silenzio. Davvero. Nei giorni scorsi, ci sono state altre cadute di rami mentre, a girare, si vedono nuove postazioni vuote per via di ulteriori abbattimenti. Eppure, le piante sono esseri viventi, come noi, costituite da energia, come noi, e crescono, si nutrono e respirano, come noi, per fare un piacere a noi, assorbendo la nostra anidride carbonica per trasformarla in ossigeno. Una domanda: “Si pensa a tutto questo, mentre la si uccide con una sega elettrica”? Qualcuno può dire: “Si abbatte perché si è ammalata e può essere pericolosa”. Bene. Allora ammazziamo tutti quelli che, da esseri umani, si ammalano, o diventano pericolosi, quando le cure costano uno sproposito. La verità è che con i nostri comportamenti abbiamo creato le premesse per una qualità della vita inconciliabile con la sua continuità e proseguiamo con modalità che soddisfano solo i bisogni di qualcuno, evitando di intervenire sulla mobilità, sul tessuto urbano, sulle stesse modalità di come vivere. Dovremmo farlo, invece, per dimostrare di aver imparato la lezione e almeno per assicurare il futuro ai nostri figli. Preoccuparsi per loro, non significa crescerli con amore e attenzione rispetto alle necessità correnti, giusto per vederli sorridere per un balocco o una festicciola in loro onore. Significa battersi per lasciare un territorio nel quale possano vivere con dignità, in buona salute e con la fierezza di essere nostri eredi. Di fatto, non potremo lamentarci se dovessero accusarci di non aver capito niente. E, neppure avrebbero torto se la Città dovesse continuare a pensare a cosa fare per far crescere, grazie al sollazzo di tanti, le vendite di ‘cuoppi’, di pizze e di frittate, invece di progettare qualcosa di meglio e di solido per l’avvenire di tutti. Purtroppo, per fare questo, ci vuole davvero qualcosa di più. Salerno ha bisogno di amore. *Ali per la Città