Lo Czar torna al Ravello Festival per due giornate in cui la profondità dell’interpretazione e del sentimento l’han fatta da padrone, per donare al pubblico la verità e l’energia che solo il concerto live può comunicare
Di Olga Chieffi
E’ il personaggio musicale dell’anno ormai da un ventennio, Valery Gergiev, schivo, non cerca l’immagine, nessuno nasconde trepidazione nell’incontrare il suo sguardo. Due giorni il direttore russo è stato ospite della LXIX edizione del Ravello Festival, un ritorno che forse ci porterà ad incontrare lo zar i suoi musicisti della Mariinskij orchestra ogni anno, sul belvedere di Villa Rufolo. Sul podio, in prova, una statua, sembra quasi non dirigere, andamenti anche più lenti, quasi una semplice lettura, poi in concerto, una vera magia, generata da un lavoro puntiglioso: un suono abbagliante o carezzevole, esile come un filo di seta o “gonfio” come un mare in tempesta, purissimo o soffocato, rivelatore dei più riposti meandri dell’anima, nato dalla capacità di dominare tutte le sezioni e tutti gli strumenti, finanche nel vibrato, indicato dalle dita. Il pubblico del Ravello Festival, è stato stregato dall’incontro con l’anima europea sottesa dalla pasta raffinata dell’orchestra, dalla petrosità immaginifica di Gergiev, il quale è, purtroppo, ancora costretto a tournée con la formazione ridotta, che non gli permette di affrontare il repertorio a lui e a noi più caro. Forse, mai ci è capitato di ascoltare così precisamente la differenza della musica russa da quella dell’Europa occidentale, in questi due concerti, in cui nel primo ha eseguito l’ouverture del Guillaume Tell di Gioacchino Rossini, seguito dall’Incompiuta di Franz Schubert e chiudendo con la sinfonia scozzese di Mendelssohn, ma proponendo come unico bis, il Valzer dei fiori dallo Schiaccianoci di Cajkovskij, mentre nel secondo, ci siamo confrontati con l’amato Prokofiev di una suite composita del Romeo e Giulietta, la sinfonia n°9, la Grande di Schubert, per poi donare quale impegnativo bis, Prélude à l’après-midi d’un faune di Claude Debussy. Lo Schubert di Gergiev è coerente nel modo con cui sottolinea il lirismo sinfonico senza accentuare eccessivamente le tracce drammatiche che appaiono nel tessuto armonico delle due sinfonie. Ben disegnato è risultato anche il romanticismo schubertiano, tramite la leggerezza strumentale della formazione, laddove la forza della dialettica e l’elaborazione dei dettagli viene equilibrata e smussata con delicate “sospensioni” agogiche. In Mendelssohn, la lettura di Gergiev è stata sensibile e accattivante, prestando particolare attenzione alla tavolozza orchestrale unica del compositore, in cui ha enfatizzato i toni più scuri dell’opera. Nell’ Ouverture del Tell, Gergiev ha seguito la logica geometrica e drammatica della pagina, in cui si è mosso con totale disinvoltura, per far respirare i dettagli e il rimbalzare dei temi fra gli strumenti, giocando in quei contrasti dinamici così ben dipanati, con la naturalezza di chi non cerca l’effetto e non scade nel manierismo, ma offre la precisa misura di un’architettura musicale e del suo ethos peculiare, della sua mobilità e della sua nobiltà, del suo slancio impetuoso, rivoluzionario. Se con Caijkovski e Prokofiev abbiamo toccato con mano le affinità elettive dello zar, i cui contrasti si sono rispecchiati nei suoi gesti decisi, e nel Konzertmeister, Lorenz Nasturica-Herschcowici, che imbracciava lo Stradivari “Rodewald” del 1713, capace di imporre il suono a tutti gli archi, il Debussy di Gergiev non è risultato certo semplice: il direttore vi ha scoperto l’incredibile sottobosco di parti interne che, combinandosi con quella che gli altri considerano “parte principale” generano intrighi ritmici e una selva altrettanto sorprendente di impasti timbrici “nuovi”, in un suono letteralmente lussureggiante. Standing ovation per Gergiev, che finalmente si è sciolto in un sorriso, come ghiaccio bollente, e un arrivederci al prossimo anno.