Il giovane tenore è il Nemorino perfetto per voce e recitazione, il baritono salernitano esalta il ruolo di Belcore centrando l’interpretazione del personaggio. Non regge la regia di Stefano Trespidi ambientata nella Salerno del 1943. Pubblico divertito all’arena lirica Ghirelli
di Olga Chieffi
“…..Qualche giorno dopo (lo sbarco alleato n.d.r.) al primo piano del nostro palazzo, si installò un comando inglese e consegnarono immediatamente a mio padre sapone, garze, ferri e medicine, ponendolo in condizione di rimettersi al servizio della comunità. La sorpresa giunse a fine ottobre, quando bussarono alla nostra porta due soldati americani in “vacanza”, prima di raggiungere le avanguardie di Cassino, Steve, un mezzosangue indiano, discendente della tribù dei Cherokee e Aaron, un ebreo, armati di tutto punto con, attraenti, per me, armi fuori ordinanza: un pugnale indiano interamente cesellato e un revolver dal calcio intarsiato di madreperla. Rimasero in casa nostra per quindici giorni, spartendo con mio padre e me, quello che si trovava oltre la farinella, le scatolette, qualche tortiera di funghi e qualche fico secco. Il giorno precedente la loro partenza, mio padre riuscì a recuperare un bel cartoccio di triglie e volle, con uno scherzo, spezzare l’angoscia della partenza ai due ragazzi, per una delle battaglie più sanguinose del secondo conflitto. In casa si rinvenne fortunosamente una damigiana d’olio, scampata allo sciacallaggio e, contro ogni regola d’economia domestica di guerra, si concordò di friggere le triglie, che furono sapientemente nascoste ai due soldati, dicendo loro che non si era riuscito a trovare proprio nulla quel giorno e che ci si sarebbe dovuto accontentare della minestrina fatta con la solita farina di piselli. Servitala, gli occhi dei due ragazzi erano diventati ancora più melanconici, quando, ormai, rassegnati al parco pasto, irruppi io, festante, con la vichinga di triglie e, nella tragedia del momento e del loro futuro, si aprì un raggio di luce”. Così scriveva mio padre Berardino, allora diciassettenne, del periodo dell’occupazione alleata a Salerno in quell’inizio autunno del 1943, giorni in cui il regista Stefano Trespidi ha voluto ambientare l’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, andato in scena venerdì sera all’arena lirica Ghirelli. Trespidi fa iniziare l’opera con una scampagnata e un pic-nic ove non manca nulla dal pane alla frutta, alle salsicce, annaffiate da fiumi di vino, con i rustici vestiti di tutto punto, quando irrompe il sergente Belcore, con gradi da tenente sulle mostrine, in divisa inglese d’epoca, seguito da soldati americani. All’epoca la fame era tanta, era difficile trovare qualcosa anche per vestirsi, nessuno escluso anche per i miei congiunti, membri di una famiglia appartenente alla borghesia cittadina. Forse l’idea, a suo modo interessante, avrebbe potuto essere sviluppata in modo diverso, magari strizzando l’occhio a “Napoli Milionaria” e alla borsa nera. L’esecuzione dell’opera è stata dominata da due voci, quella di Biagio Pizzuti, sorprendente Belcore e di Valentyn Dytiuk, il Nemorino perfetto. Molti interpretano Belcore come un tipo grossolano, rozzo e aggressivo. Tuttavia, dobbiamo anche riconoscere che egli è pur sempre un sergente, un uomo d’armi, e non certo un “rustico”. Biagio Pizzuti ha dominato il palcoscenico e la linea di canto, presentando un Belcore di gran corpo, sotto una luce meno comicamente villanesca e sgarbata, come in genere lo si schizza. Una voce, quella di Biagio, che ci piacerebbe ascoltare nel trittico pucciniano, magari quale Gianni Schicchi. Valentyn è Nemorino nella voce e nell’interpretazione. Suo il bis dell’aria clou del ruolo, “Una furtiva lacrima”, che lo fa uscire dalla corteccia dell’archetipo del personaggio per tradursi in energia sentimentale, insieme allo strumento che, fino ad allora era stato principe dell’opera comica rossiniana, il fagotto, venerdì sera, suonato lodevolmente da Antonello Capone. Irina Lungu è risultata una Adina credibile, anche se la voce ha velluto più morbido nelle zone centrali, con qualche asperità, per contro, negli acuti. In ogni caso, la sua è stata un’Adina degna, anche nelle agilità di “Il mio rigor dimentica”. Il dottore Dulcamara, affidato al georgiano Misha Kiria ha dimostrato diversi punti deboli, in alcuni momenti della rappresentazione, di una non perfetta aderenza nei tempi tra parole e musica soprattutto nelle parti d’assieme, in particolare in “Io son ricco e tu sei bella”, nonché la cavatina “Udite, udite o rustici!” cantata con grande preoccupazione, senza “giocare” con le note e le parole. Giannetta, Miriam Artiaco, ha acuito ancor di più, l’impressione di scollamento tra orchestra e palcoscenico. Daniel Oren ha inferto alla partitura numerosi tagli, sia riprendendone alcuni della vecchia tradizione, sia apportandone altri, dirigendo romanticamente l’opera, sostenuto da un’ottima orchestra, che ha i suoi punti forti nei legni. Bene il coro preparato da Armando Tasso nelle brillanti impennate ritmiche di Gaetano Donizetti. Applausi e appuntamento al teatro Verdi, per il gran finale di stagione.