Di ARISTIDE FIORE
L’ incanto di una terra legata al mare da tradizioni arcaiche ha accolto il pubblico del Teatro Ghirelli di Salerno, con “La donna pesce. Un cunto di mare e ferro”, di Rosario Sparno, liberamente ispirato ad Andrea Camilleri e prodotto da Casa del Contemporaneo. Una storia fantastica che sfida il tempo come un ulivo plurimillenario, affondando le radici nei versi omerici e estendendo le sue fronde fino all’opera di Camilleri, che nel romanzo “Maruzza Musumeci” (Sellerio 2007) l’ha raccolta e tramandata nella forma del “cunto” siciliano. In questa riscrittura teatrale ne viene recuperata la dimensione originaria, quella orale, che dalla notte dei tempi anima le riunioni intorno a un fuoco o la monotonia del lavoro. Così, anche i due abili interpreti, Antonella Romano e lo stesso Sparno, dipanano il racconto al ritmo dell’intreccio di filo di ferro e della sua lucidatura con acqua di mare. Lo animano incarnando i vari personaggi e affidandosi a una mimica efficacissima per vivificare le scene di una vicenda sospesa tra la schiettezza di figure popolaresche della Sicilia rurale e rivierasca e il mistero di figure soprannaturali, sopravvissute attraverso i secoli mimetizzandosi tra i popolani. Il tutto è reso con la musicalità del dialetto siciliano e un ricco corredo di modi di dire, proverbi, canti, filastrocche e formule di brindisi nuziali. La leggiadria di quella lingua quasi cantata fa scivolare l’immaginazione tra eventi prodigiosi e delitti, con la grazia di una favola raccontata ai bambini. Sparno trasmette l’ingenuità e la meraviglia di ‘Gnazio Manisca, un contadino tornato dall’America per acquistare un fondo da coltivare e per trovare moglie: la sua caratterizzazione richiama alla mente certi personaggi popolareschi delle novelle pirandelliane, alcuni dei quali portati anche in scena nelle derivazioni teatrali di tali opere. Suoi sono anche i due improbabili ulissidi, padre e figlio, contadini taciturni, quasi afoni, vittime inconsapevoli di una macchinazione omicida solo a causa dell’assonanza di nome e aspetto con l’eroe omerico che osò resistere, con un sotterfugio, al richiamo sensuale delle sirene, traendo piacere dal loro canto senza conseguenze, se non fosse per quell’antico conto, regolato dopo molti secoli a spese di due poveri “Signor Nessuno”. Antonella Romano, alla quale sono affidati naturalmente i personaggi femminili, regge le fila della narrazione così come modella, nel frattempo, una coda di sirena col filo di ferro, unendo abilità manuali e linguistiche nel trasportare il pubblico dentro la storia, grazie anche all’atmosfera fantastica determinata da altre sue realizzazioni collocate sul palco e nei camminamenti che conducono alla platea. Dismettendo all’occorrenza il ruolo di narratrice, incarna ora Gnà Pina, maga e sensale, che coinvolge Gnazio nelle trame delle due sirene, finalizzate alla vendetta e alla riproduzione della loro specie, ora le due creature mitologiche: Maruzza Musumeci e la sua bisnonna Menìca. La prima sposerà l’ignaro protagonista, donandogli però in cambio l’affetto coniugale e due figli, un bimbo e una sirenetta, la cui vicenda si rimanda alle pagine, non meno affascinanti, di Camilleri. La seconda sparisce tra i flutti, cantando e ponendo in atto, quale ultimo prodigio, il proprio ringiovanimento. Si direbbe una vicenda imperniata su dualismi: terra e mare, umano e sovrumano, naturale e soprannaturale, amore e morte, il cui gioco eterno, che incarna il senso stesso dell’esistenza, si riverbera nella differenza di stile e nella complementarità dei due attori.