Renzo Giacchieri e Alfredo Troisi scelgono il segno incisivo di Caravaggio per le scene, che sposa l’intenzione di Daniel Oren. Cast perfetto, unitamente al coro e all’orchestra, che superano anche i soliti inceppi dei microfoni
Di Olga Chieffi
Platea estiva per la prima di Tosca, andata in scena nell’arena lirica del Teatro Ghirelli. Tra spalti, ponte e parco, i protagonisti dell’opera, dai cantanti, al coro, agli strumentisti, hanno ritrovato l’abbraccio del pubblico, tra cui il sindaco Vincenzo Napoli, l’assessore Tonia Willburger e anche il nostro baritono Biagio Pizzuti, con la famiglia al completo, uno sguardo, ai luoghi che lo vedranno protagonista sia in Pagliacci nel ruolo di Silvio che dell’Elisir d’Amore in quello di Belcore. Questa Tosca al Ghirelli, firmata da Renzo Giacchieri e Alfredo Troisi, ha nelle scene, radice in quella del teatro greco di Siracusa del 2019 che ebbe la supervisione registica di Alessandro Cecchi Paone. In scena abbiamo quattro celebri quadri del Caravaggio, l’estasi di Maddalena e il particolare di Marta e Maddalena, per il Mario Cavaradossi pittore, la Giuditta e Oloferne, per il secondo atto nello studio del Barone Scarpia e il particolare dell’angelo che visita San Matteo, per la fucilazione sui merli di Castel Sant’Angelo, che fa il doppio con l’Arcangelo Michele. Il segno di Caravaggio coglie la realtà nell’attimo “decisivo”, una disperata e sorprendente modernità, racchiusa nel suo legame al tempo psicologico, in un palcoscenico pieno d’ombra e di mistero su cui i personaggi, questi prigionieri del melodramma che tentano di liberarsi, contorcendosi caravaggescamente, sono riusciti a compiere magnificamente il loro viaggio e ad attuare il proprio cambiamento. Partitura diretta da Daniel Oren, che ha proceduto con un lavorio di cesello che non disarticola, ma va a cogliere infallibilmente la sintesi delle linee drammatiche. Infatti, dalla partitura risulta terso e aereo il disegno drammaturgico, il respiro espressivo. Dramma sado-masochista, quello di Tosca? La vernice naturalistica che gli è stata buttata addosso si è sbiadita col tempo. Oren è riuscito nell’intento di servirsi delle voci dei cantanti per esprimere segni di creature nude di ogni idealità: puro palpito psicologico, e così minuto da sembrare sull’orlo di precipitare in aspra fisiologia. Sono schiavi di se stessi, ma della loro parte più oscura, e il corsivo della vita li annienta. Gli italiani rappresentati da Puccini vivono l’atonia o l’alienazione da ogni valore morale, e la loro amoralità è il suggello di un destino luttuoso. Daniel Oren ci ha regalato una pantografia dello sfondo d’amore di Tosca e Mario, con gli incendi convulsi e le sfibratezze necessarie: con i violini che sembrano lacerarsi nella seta e i legni che trasaliscono alludendo a soffocazione senza mai essere soffocati. Un plauso per i violoncelli, guidati da Fabio Fausone. Maria Josè Siri ha decisamente dominato sull’intero cast, con la sua capacità di donarci un melos percepibile nota per nota, nella sua profilatura, quasi fosse uno strumento ad arco a suonare, con la parola pronunciata nitidamente e morbidamente, con il suono sempre in “avanti”. A lei l’onere e l’onore di intonare quel “Vissi d’arte”, stavolta altamente emozionante, poiché dedicato alla giovane Chiara Pepe, a Carla Fracci e a Raffaella Carrà, che ci hanno lasciato solo fisicamente, un canto, quello della Siri, che è stato capace di svelare il segreto di quelle anime senza tradirle, gettandovi soltanto un raggio di luce obliqua, salvifica. Il suo Mario, Fabio Sartori ha sfoggiato un bel timbro, virilmente gagliardo, leggerezza nell’approccio amoroso e resistenza drammatica, anche se il carisma scenico è ben lontano. Roberto Frontali che ha prestato la sua voce baritonale, di grande scuola ed esperienza, al barone Scarpia, si è calato nel ruolo con eleganza e distacco, nonostante la sua entrata in Sant’Andrea sia stata completamente rovinata dal cedimento di un microfono. Tecnicamente soddisfacenti i comprimari, Carlo Striuli Cesare Angelotti, Francesco Pittari, Spoletta, Maurizio Bove, Sciarrone e Massimo Rizzi, un carceriere. Una nota di merito, per il basso buffo Angelo Nardinocchi, il Sacrestano, e per la piccola Sabrina Pisapia, che se l’è ben cavata con la non facile aria del pastorello “Io de’ sospiri” in modo lidio. Proficuamente preparati il Coro della Filarmonica e delle Voci Bianche, guidate rispettivamente da Tiziana Carlini e Silvana Noschese. Si è replicato anche ieri, per non mancare di gridare Vittoria!Vittoria!, come Mario Cavaradossi, oggi, in una notte, che desideriamo si tinga d’azzurro.