di Antonio Manconi
Soltanto dopo l’alluvione del 1954 qualche estraneo all’ambiente si azzardava ad entrare nel Rione delle Fornelle. Il minimo che si potesse sentir dire degli abitanti di quella zona era che si trattava di “gente estranea, non raccomandabile”. Fino a poco prima, egualmente male si parlava anche dei Rioni “Barbuti” e “San Giovanniello”. Devo dire, però, che soltanto giudizi negativi potevano emettere le persone che non sapevano della storia e della caratteristica bellezza di quei luoghi e che non erano in grado di conoscere certe verità. C’era sporcizia, c’era un dialetto “volgare”, come di manifesta volgarità era il comportamento e gli abiti di quegli abitanti, e c’erano “fattacci” e delinquenza. Ma poco o nulla si sapeva o si diceva della povertà che imperava soprattutto nei Barbuti e in Sangiovanniello e del completo abbandono da parte della Pubblica Amministrazione. Personalmente posso dire di concetti che avevo di queste tre zone, premettendo che appartenevo ad una famiglia di media borghesia napoletana. Sono della classe 1935 e tra il 1938 e il 1945 ho vissuto in Piazza 28 Ottobre (ora Piazza Crocifisso). I miei migliori amici in quel periodo erano ragazzi di San Giovanniello perché è con alcuni di loro che si giocava in quella piazza. La differenza era che io vestivo meglio di loro e che loro non avevano le scarpe che io non mi sarei sognato nemmeno lontanamente di non indossare. Nell’immediato dopoguerra ho frequentato un po’ i vicoli dei Barbuti: con altri ragazzi si conducevano lì dentro (dietro compenso) soldati alleati per farli entrare in contatto con prostitute. Mi è rimasto impresso nella mente che in quelle occasioni incontravo sempre,
congiuntamente allo sporco, la stranezza di silenzio e di assenza di abitanti. Dal 1950 al 1965 ho abitato in Via Porta Catena nel palazzo di fronte al Vicolo delle Galesse. All’inizio divenni subito grande amico di un ragazzo delle Galesse, il caro Tonino Musto, è fu con lui che, attraverso il Vicolo degli Amalfitani, andai un paio di volte proprio nel centro delle Fornelle, Piazza D’Aiello: lui voleva cercare di rivedere una ragazzina; io mi ero innamorato della fontana a vasca lì esistente ritenendola più bella (o più logica perché l’acqua potabile veniva data da anfore e non da pesci?) di quella di Largo Campo e trovavo piacevole l’allegra atmosfera che vi regnava per il vociare dei ragazzini e il colloquiare delle donne sedute all’aperto come se stessero in salotto. Di quel Rione mi è rimasta l’impressione che, almeno fino al 1955, non fosse prudente accedervi né dal vicolo di fronte alla Chiesa dell’Annunziata né dal vicolo Esposito. Ed è da questo secondo vicolo che spesso si vedevano uscire gruppi di donne vocianti e litiganti perché era sulla Via Porta Catena, cioè “in pubblico”, che avevano necessità di far sapere di tradimenti e di forti contrasti che dovevano sfogare necessariamente in lotta di corpi delle due donne del momento con immancabili strappi di capelli tra i poco convincenti tentativi delle altre donne di calmare e spegnere i fuochi. Fino agli anni ’60 veniva evidenziata una situazione particolare: i tre rioni popolari (che già incominciavano a perdere quella loro caratteristica) erano ben distinti tra loro per tradizioni, usi, comportamenti, linguaggio ed anche per come venivano considerati dagli altri abitanti della città. Oltre queste distinzioni, veniva in risalto che, in genere, non c’erano contatti o rapporti umani tra loro, pur esistendo vari collegamenti viari. Infatti, tutti e tre confinano a monte con la Via Tasso e la Via Bastioni e a valle con la Via Porta Catena e la Via Mercanti e tutte e tre longitudinalmente sono collegati, partendo dalle Fornelle, con questo percorso: Vicolo degli Amalfitani, Vicolo Radeprandi, Vicolo Municipio Vecchio, San Pietro a Corte, Vicolo Adelberga, Vicolo Cassa Vecchia, Via Roberto il Guiscardo, Via Canepari. E si diceva che esisteva anche un’altra distinzione: nelle Fornelle gli uomini erano tutti pescatori e le donne tutte casalinghe; nei Barbuti, invece, vi era soltanto qualche pescatore mentre tutti gli altri uomini svolgevano lavori i più vari e qualche donna faceva servizi domestici in famiglie; a San Giovanniello si potevano trovare vari artigiani, qualche pescatore e qualche donna di servizio.
Oggi, però, troviamo che sono cambiati i luoghi e gli animi, che l’Amministrazione pubblica è ben sveglia per questi Rioni e che Fornelle, soprattutto per la sua “Street Art” su base poetica, ha una valenza straordinaria per la Città. Termino con il suggerire una passeggiata seguendo il percorso sopra indicato come collegamento tra i tre rioni Fornelle, Barbuti e San Giovanniello, ora da considerare tutt’altro che “popolari”. Una passeggiata che sia di intensa attenzione, guardando bene a destra, a sinistra, in basso, in alto, fuori e, possibilmente, dentro le abitazioni. E finalmente riferisco su quanto ho letto in merito a questo amabile Rione.Inizialmente quella zona sorse a seguito dell’allungamento delle mura a lato del torrente Fusandola (allora si chiamava “Salum”) e della apposizione della relativa porta (porta Busanola poi sostituita dalla porta Catena), lavori fatti effettuare da Grimoaldo, il figlio di Arechi (anno 788-789- Arechi era morto nel 787). In questo spazio generato dalle nuove mura vennero ospitati molti abitanti di Vietri (forse provenienti dalla zona collinare di Molina), i quali portarono la loro precipua attività di ceramisti. La loro presenza fece sì che la zona venisse indicata come “Locus Veterensium” e la loro attività generò dopo vari secoli la denominazione “Fornelle” per i piccoli forni che venivano utilizzati per la cottura dell’argilla (qualche fonte, poco convincente, dice che il nome potrebbe derivare dal termine “formae” con il quale si intendevano le condutture che portavano acque minerali). Successivamente, nell’ 839, il Principe Sicardo (832-839), dopo di avere espugnato Amalfi, fece trasferire a Salerno molti Amalfitani (per costrizione o per loro volontà?) e li sistemò in quella zona. Con gli anni si arrivò ad una certa integrazione tra Amalfitani ed ex vietresi e così la popolazione andò aumentando tanto che si incominciò ad indicare la zona come “Vicus Amalphitanorum”. Mi sfugge quando si incominciò a denominare “Le Fornelle” quel Rione. Di quell’epoca medioevale sono da menzionare tre avvenimenti. Nell’anno 837 il Principe Sicardo invase Minori e si impossessò delle reliquie di Santa Trofimena, molto venerata in quella zona, per portarle a Benevento. Due anni dopo (839), il suo successore, il fratello Siconolfo, stabilì di restituirle, però dopo una breve sosta a Salerno. In attesa di questo arrivo, proprio nel Rione di nostro interesse venne costruita una Chiesa intestata a Santa Trofimena, chiesa ancora esistente e finalmente poco fa restaurata. Altro avvenimento, anno 839, fu l’uccisione di Sicone da parte di cospirati tra i quali c’erano anche degli Amalfitani (se non proprio capeggiatori) che poco dopo avrebbero messo la città a “ferro e fuoco”. Avvenimento di rilievo è da indicare anche la costruzione della bella fontana esistente in un angolo della Piazza d’Aiello avvenuta nel 1600.